Botteghe d’un tempo – di Giorgetta Dorfles

Con l’aumento esponenziale dei supermercati, i negozi di alimentari che riescono a sopravvivere alle sempre più numerose chiusure dovute alla concorrenza, devono assumere un carattere più specialistico, puntando sull’eccellenza in un certo settore o sulle specialità locali, oppure contare sugli affezionati clienti della zona. Fra questi molti sono anziani, sia perché non sempre hanno voglia o possibilità di muoversi in macchina per fare rifornimento nei centri commerciali, sia per l’ambiente più umano, dove il rivenditore diventa un punto di riferimento da cui ci si sente accolti con benevolenza e dove si possono anche scambiare due chiacchiere. Tutt’altra sensazione si prova alla cassa del supermercato, dove ti senti in colpa se solo rallenti la fila perchè hai dimenticato di pesare la verdura o non riesci a trovare le monetine. Forse c’è anche la nostalgia delle botteghe di un tempo passato a convogliare i vecchi verso il negozietto del quartiere. Per stimolare la loro memoria con un ricordo affettivo proviamo a farne una breve descrizione.

Come faceva la spesa una casalinga della prima metà del ‘900? In genere trovava sotto casa la bottega mangiativa, dove il rapporto con i prodotti in vendita era molto più diretto: fagioli, piselli. farina, zucchero erano esposti in vista in grossi sacchi di juta posati sul pavimento. Alimenti più stuzzicanti, come olive in salamoia, capuzzi garbi o sardelle salate erano contenuti in mastelle di legno; anche l’olio e la salsa di pomodoro venivano venduti a peso, estratti con un misurino da delle latte apposite. Non mancava il reparto per i bambini: grossi barattoli di vetro ne stuzzicavano la gola con il prezioso contenuto in mentine, bastoncini di liquirizia, lunette di arancio e di limone. La pasta, senza marche pretenziose, si sceglieva solo per il formato, lungo o corto, ed era stivata in cassetti di legno.

Già questo scenario ci evoca un mondo diverso, una forma di commercio rudimentale, che forse può fare tenerezza. Magari dai sacchi aperti potevano sbucare delle bestioline e non esistevano certo date di scadenza, ma l’uso esclusivo di cartocci di carta per avvolgere la merce era molto più in linea con le attuali istanze ecologiche e tutto il sistema probabilmente più salutare delle batterie di cibi imbozzolati nella plastica e stivati nei refrigeratori.

Viste le magre condizioni economiche di allora vigeva in grande stile l’arte del risparmio e del riciclo: non essendoci ancora i frigoriferi, tutti gli avanzi venivano immediatamente rielaborati, fornendo dei cibi a bassissimo costo fatti di rimasugli. Ad esempio i ritagli di salumi e formaggi, che si potevano usare come antipasto o per insaporire le minestre, oppure i cosiddetti “puncetti”, dei dolci un po’ passati che venivano rimpastati con un po’ di rum, marmellata di albicocche e qualche mandorla tritata. Anche i ritagli delle paste creme, rigorosamente fatte a mano come il pane e tutti i dolci, venivano venduti per pochi spiccioli.  Nelle panetterie il lavoro era molto duro perché si svolgeva di notte: s’impastava il pane a forza di braccia mescolando una farina scura, contenente anche la semola, con l’acqua e la pasta madre, lievitata il giorno prima. Le prime macchine automatizzate sarebbero apparse appena negli anni ’60.

Sempre pensando all’esigenza del risparmio, i prezzi erano molto più visibili perchè scritti col gesso su delle lavagnette e anche la quantità della merce più controllabile, visto che la massaia poteva tenere d’occhio la tara e la lancetta del peso sulla bilancia semi automatica. Da non dimenticare, infine, la cordiale disponibilità del vecio botegher,  pronto a segnare “in nota” la spesa sul libretto e a fare credito a chi si trovasse in difficoltà.

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