“Ci sono molti modi” La cultura della palliazione a sostegno della pluralità del dire, del fare, del vivere e del morire. – di Adriana Tidona

La lingua italiana consta di 270 mila lessemi, ovverodi 270 mila unità lessicali. Si tratta di parole, dunque, le quali,se declinate, portano il totale a due milioni di termini dicibili. Iniziava così ilTed Talk di Pescara di Alessandro Greco dedicato alle “Parole” (https://www.youtube.com/watch?v=0qTSKicRkrg&ab_channel=TEDxTalks). E in quello speech, Alessandro ci fa notare che, in pratica, nella nostra lingua c’è una parola per tutto. Esiste, per esempio, una parola per definire chi si vanta di capacità o imprese inventate – smargiasso. C’è una parola desueta che indica una fanciulla prosperosa, sgarzigliona.

C’è poi una parola per definire una persona che ha perso il marito – vedova – e una persona per indicare chi ha perso un genitore, orfano. Ma una parola per definire chi ha perso un figlio?. No, quella non c’è. E forse, ci dice Alessandro, è un bene che non ci sia, perché il dolore per una tale perdita è così grande che sarebbe difficile circoscriverlo in un solo termine.

Questo talk, consigliatissimo a tutti, ci fa riflettere sul fatto che le parole hanno una relazione con tutto, anche col dolore, perfino quando sembra impossibile esprimerlo. Il dolore nelle nostre vite, volenti o nolenti, non possiamo evitarlo. Però possiamo scegliere le parole giuste per avvicinarlo a noi il più possibile e per far sì che non resti in una stagnazione infruttifera o chiuso in un cassetto, ma che sia un’occasione poietica, di produzionedi qualcosa di diverso e di inedito per le nostre vite. Attraverso il linguaggio non possiamo liberarci del dolore, ma possiamo quindi alleviare la stretta della sua presa che ci attanaglia.

Le parole, in questa ricerca del senso della sofferenza, sono quindi nostre alleate. Lo leggiamo nel nuovo libro di Sandro Spinsanti, La cura in modalità palliativa (Editrice Dapero 2022, in uscita il 19 settembre p.v.) dove il dolore – e più in generale la terra dello “star male”– viene visto come un veicolo che ci fa atterrare in terre sconosciute. Quando il dolore arriva nelle nostre esistenze ci porta a sentirci come Erodoto che viaggia per terre straniere. La sofferenza è un continente estraneo dove vige lo spaesamento, il disorientamento, il vuoto angoscioso. Ma, se volessimo affrontare questa ascesa verso l’ignoto
alla maniera di Erodoto, che nel nuovo scopre, raccoglie e trova nuove forme di conoscenza, è necessario cambiare approccio con le categorie di dolore, di malattia, di salute. L’approccio di cui si parla nel testo di Spinsanti è quello che si riferisce alla cultura della cura, che implica una rivisitazione non solo delle parole, ma anche delle regole e delle pratiche. Trovarsi malati in un contesto culturale dove la medicina ha un mero ruolo performativo, dove il linguaggio prevalente è solo quello tecnico-clinico e dove i gesti di cura non sono adeguati e rispettosi, renderebbe il viaggio nei territori dello star male come un inferno sulla terra.

Ecco perché, interrogando le parole, possiamo ritornare a ripensare tutto quel che coinvolge la cura della persona, specialmente se fragile, e possiamo auspicare per lei – e per noi stessi – un tempo e uno spazio dignitosi, non per forza connotati dal ripristino della condizioni normali pre-malattia (reductio ad integrum, come dice Spinsanti) ma caratterizzati da nuove linfe per affrontare meglio la patologia.

Di recente abbiamo tutti tristemente appreso della morte di Piero Angela, uomo di cultura apprezzato e stimato dai più. Il figlio Alberto, durante il discorso funebre dedicato al padre, ha
riportato un aforisma di Leonardo da Vinci che il padre era solito citare: “Siccome una giornata ben spesa dà lieto dormire, così una vita ben usata dà lieto morire”. Senza fare l’errore di pensare che solo ad alcuni “grandi” uomini sia permesso di morire in pace, possiamo chiederci: cosa possiamo fare per giungere, il più possibile, a una condizione in cui le ultime battute della nostra vita siano liete e non angosciose? Cosa possiamo dire e pensare per non andarcene via senza aver terminato i nostri sospesi?

Il cuore di questa risposta lo possiamo ritrovare nella formula che Spinsanti propone nel suo libro: ripensare la cultura palliativa, strappandola dal terreno del mero accompagnamento alla morte, dal momento nel quale “non c’è più niente da fare”, per riportarla a una modalità della cura. La cultura palliativa è qui presentata come un approccio che mira a prendere completa cittadinanza nel cuore della medicina, senza per forza invocare il fantasma della morte. Si tratta quindi di un primo lavoro che dobbiamo operare sulle parole, anzi, sulla parola “palliazione” per sottrarla all’universo che la vede come il residuo della medicina, come la sua
resa finale. Cambiandone accezione – quando proprio non è possibile cambiare parola, ahinoi, un po’ infelice – la cultura palliativa comporta una serie di competenze per la pratica medica e per quella di tutti i professionisti della cura e si comporta come una conoscenza imprescindibile per ogni professionalità.

La prima grande competenza della cultura della palliazione è quella relativa al comunicare. Le competenze comunicative, che trovano nella Medicina Narrativa una grande alleata, sono parti integranti del processo di cura, perché aiutano la relazione e la stessa guarigione della persona. Permettono al curante di conoscere le volontà, le ambizioni, i desideri della persona malata e consentono altresì a quest’ultima di conoscere meglio sé stessa, di esplorarsi in quel terreno sconosciuto col quale non si era mai confrontata e di esprimere, infine, i propri desiderata. Le parole sono importanti, ma lo sono ancora di più quando sono oneste, quando cioè non nascondono, non edulcorano la situazione, ma quando coinvolgono la persona, quando le dimostrano trasparenza, affidabilità, senza per questo tranciare di netto lasperanza.

L’esito infausto di una diagnosi è spesso negato al diretto interessato o, a volte, è oggetto di filtri comunicativi applicati dai medici o dai familiari. La cultura della palliazione mira alle “parole oneste” (diverse da quelle deliberatamente “disoneste”) per consentire alla persona di giungere all’autodeterminazione, al sentirsi soggetto e non oggetto passivo della sua cura. L’autonomia cui ambisce la cultura palliativa ha in mente un concetto alto di persona, concependola non come un’entità di per sé fragile e da proteggere, ma come un’entità morale in grado di giungere da sé alla propria autorealizzazione.

Spinsanti cita la “Grande Salute”di Nietzsche, non intendendola come uno stato di assenza di dolore o come il ripristino delle condizioni precedenti di salute (la normalità), ma come quel momento in cui la persona malata è nelle condizioni di esprimere il proprio percorso di autorealizzazione, nel pieno della sua libertà e della sua dignità. La “Grande Salute” è il coronamento della nostra volontà di esprimerci, di raccontare la nostra storia come quella di corpi che affrontano momenti di salute alternati a momenti di malattia.

In questo percorso nessuna via è da ritenere percorribile o evitabile a priori. La cura che ha in mente la cultura palliativa è una cura sartoriale, “cucita” sulla persona, su misura, adattata alla singolarità. Nessuno specialista e nessun medico dovrebbe ergersi a interprete unico di un desiderio auspicabile per tutti. Per questo motivo in questo testo la vera protagonista è la pluralità. Quella delle persone, delle parole da usare, delle pratiche giuste, delle scelte di cura. Tanto più questa pluralità sarà protetta dalle regole, quanto più avremo un mondo a misura di persona.

E dunque, per concludere, lasciamo i lettori dell’articolo – e del libro – con una parola che è sia un auspicio, sia un invito. La parola è “adesso”. L’hic et nunc che è necessario considerare per prendere consapevolezza su noi stessi e sullo stato delle nostre cure e dei nostri servizi. Il momento presente per iniziare a chiederci come vogliamo vivere, a partire dalla domanda “come voglio morire?”. Per scoprire, in fondo, che “ci sono molti modi” per prendersi cura di noi stessi e degli altri. Basta solo non aver paura di inventarli.

COMMENTA SULLA NOSTRA PAGINA FACEBOOK

I NOSTRI PARTNER

SEGUICI SUI SOCIAL

Share This