Considerazioni sull’atteggiamento nella realizzazione dei trattamenti non farmacologici per la demenza – del Dott. Filippo Bergamo, IPAV Venezia

Quando si parla di attitudine nel campo degli interventi psicosociali rivolti alle persone che vivono con demenza dobbiamo saper distinguere tra personalità e atteggiamento e partire da chi qualche pensiero se l’è posto. Il concetto di personalità è stato applicato per la prima volta alle persone che vivono con demenza da Kitwood. Può essere complesso da definire, ma è generalmente usato per descrivere ciò che costituisce gli attributi dell’essere una persona.

Secondo Kitwood la personalità è una posizione o uno status che viene conferito a un essere umano da altri e implica riconoscimento, rispetto e fiducia. Attraverso questo riconoscimento, rispetto e fiducia, la personalità di un individuo sarà migliorata così come il suo benessere. Se si verifica il contrario, allora la personalità diminuirà, portando a “malessere”. È errato suggerire che le persone che vivono con demenza dovrebbero essere in uno stato costante di benessere perché questo non è uno stato mantenibile per qualsiasi persona, bene o male.

Nonostante questo riconoscimento, Kitwood ha affermato che le persone che vivono con demenza, che per lo più hanno sperimentato il “malessere”, avevano maggiori probabilità di mostrare sentimenti di personalità indebolita. Quelle persone che vivono con demenza che hanno sperimentato un malessere più frequente vivevano spesso in ambienti di cura che non supportavano il concetto di personalità. Gli operatori sanitari in questi ambienti assistenziali non stavano minando di proposito la personalità delle persone di cui si stavano occupando, ma non erano consapevoli delle esigenze specialistiche richieste da questi individui. Ancor prima di Kitwood, già Rogers, costituiva le basi della cura centrata sulla persona sottolineando quanto importante sia la non direttività.

L’approccio centrato sulla persona si fonda sul valore predominante dell’esperienza di ogni essere umano e stimola ogni individuo ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte e dei propri vissuti.

Si capisce chiaramente che Rogers cambia l’atteggiamento nei confronti delle persone che diventano da pazienti, a clienti a persone.

L’analisi che si vuole porre all’attenzione è quella relativa a noi stessi, al nostro modo di porci verso l’altro, sviscerando i nostri giudizi, pregiudizi o quant’altro al fine di avere una consapevolezza maggiore di come ci si pone nei confronti delle persone che trattiamo e quali sono i rischi nel rapporto determinati dalle nostre stesse caratteristiche personologiche.

Ragionare su personalità e su atteggiamento diventa quindi un altro passo obbligato se si vuole proporre un intervento meno inquinato possibile da aspetti giudicanti e a volte addirittura discriminanti o stigmatizzanti.

Ma si parta dall’inizio e da ciò che si intende per atteggiamento del quale si riportano due definizioni:

Modo di disporsi o di presentarsi, come riflesso di un determinato stato d’animo o come forma deliberatamente assunta di comportamento;

– disposizione di ogni persona di produrre risposte emotive, sentimentali, comportamentali, determinate dall’ambiente familiare, sociale o lavorativo, riguardo a situazioni, gruppi o oggetti.

Anche se lo si dà per scontato è indispensabile sottolineare che Il nostro atteggiamento è forma di comunicazione ed è importante e necessario che ci sia aderenza e pertinenza tra la comunicazione verbale e quella non verbale quando ci rapportiamo con le persone che seguiamo e che trattiamo.

Possiamo comunicare con la bocca in una maniera e con il corpo in un’altra e se così accade generalmente il non verbale è decisamente più diretto per cui una riflessione va sicuramente fatta.

Una grande analisi di ciò che realmente pensiamo della persona ed in particolare di quelle che vivono con demenza è quasi necessaria. L’essere d’aiuto a qualcuno è estremamente appagante e ci mette altresì in una situazione di potere nei confronti delle persone che seguiamo.

Non solo, le stesse persone rientrano in una nostra ideale rappresentazione di relazioni e ruoli, nonché di rapporto di genere.

Si capisce che le riflessioni a riguardo sono molte e a volte toccano personalmente nel profondo del rapporto con sé stessi, con gli altri e con le proprie fragilità e sofferenze.

Se come esplicitato precedentemente la relazione diventa il canale centrale nel rapporto si capisce quanto delicato ed importante è il concetto di atteggiamento.

Nel corso degli anni di pratica, definiamola clinica, sugli interventi psicosociali rivolti alle persone che vivono con demenza e nell’osservare la pratica altrui nonché i molti report congressuali su trials fatti da gruppi di lavoro, si è potuto notare una certa tendenza a concludere il discorso sulle sperimentazioni dicendo che: è difficile standardizzare i risultati ottenuti ma che è evidente una ricaduta positiva dell’intervento sulle persone a cui lo si è proposto.

Si ricorda con grande delicatezza una precisazione fatta in uno degli ultimi convegni sui Centri Diurni Alzheimer da parte dott. Mossello (Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica, A.O.U. Careggi e Università degli Studi di Firenze) quando, dopo aver sentito una serie di esperienze su vari approcci non farmacologici proposti da colleghi di svariate realtà del territorio nazionale e riportanti alla conclusione l’esito prima descritto, chiedeva quando mai qualcuno avrebbe portato in pubblico un esito fallimentare di un intervento.

Questo aneddoto per sottolineare quanto la ricerca di efficacia a volte sia troppo rilevante ed errore sempre dietro l’angolo per chi si occupa di questi tipi di trattamenti sfociando a volte nella autoreferenzialità.

Importante è piuttosto porre un forte accento su quello che costituisce il processo delle attività. In effetti, è lì che si snodano tutte le situazioni che permettono di arrivare ad un certo “flow” e quindi creare quel clima ritenuto ideale affinché le persone possano esprimersi al massimo delle loro performance. Questo tipo di approccio vale per tutti ma trova maggior visibilità quando ci riferiamo a persone ancora in grado di offrire un certo tipo di risposte.

L’ostinazione ad avere un risultato a tutti i costi è un rischio perché fa perdere di vista il processo è questo significa avere una ricaduta negativa sulla qualità dell’intervento.

Resta che a conclusione di qualsivoglia lavoro il risultato deve avere determinate caratteristiche. Proprio per i principi di dignità, correttezza e rispetto della vita (sia di quella presente che di quella passata) non si può arrivare a nessun prodotto che sia percepito come scadente, banale o ancor peggio infantile. Ciò che portiamo come esito finale deve essere di buon livello o come si preferisce dire “universalmente apprezzabile”.

Tutti questi fattori relativi a chi si occupa di interventi psicosociali/non-farmacologici mettono a rischio di avere degli eccessi negli atteggiamenti che inevitabilmente hanno una ricaduta sulle persone che seguiamo. Nonostante le mille sfaccettature di ogni persona si è cercato di individuarli e renderli riconoscibili.

Nel corso di questi anni ho riscontrato tre tipologie di eccessi negli atteggiamenti durante la conduzione degli interventi psicosociali rivolti alle persone che vivono con demenza:

– CLINICO: Estremamente tecnico, pienamente osservante del setting, delle tecniche e delle strategie. Piuttosto freddo e distaccato nella relazione al fine di inquinare il meno possibile l’esito delle performances richieste. Con il rischio di far sentire la persona cavia del nostro operato.

– TENERO: Poco incline ad aspetti tecnici o di setting, l’obiettivo è far star bene la persona a qualunque costo pertanto disposto a qualsiasi mezzo al fine di ottenere un feedback positivo. La persona viene quasi svilita diventa un … povero vecchietto.

– ECLETTICO: Altalena comportamenti estremamente tecnici a momenti di assoluta affettività a volte perdendo di vista l’una o l’altra cosa creando confusione.

È proprio nel rispetto delle caratteristiche personali di ciascuno che si parla di eccessi in quanto non esiste probabilmente un atteggiamento perfetto ma un ideale attenzione massima a tutti gli elementi razionalizzabili all’interno delle nostre attività, noi compresi!

Allora l’atteggiamento, gli obiettivi, i tempi, il setting, le conoscenze tecniche, le abilità diventano un tutt’uno con un suo equilibrio che può mettere le condizioni migliori per realizzare un’attività di qualità per le persone coinvolte e anche per sé stessi.

L’obiettivo è quello di dare massima dignità alla persona o alle persone coinvolte nelle attività proposte. Un outcome di difficile misurazione clinica ma di rilevante spessore etico e morale.

Parliamo d’amore…

La cura ha bisogno di intelligenza, curiosità, pazienza, generosità, tolleranza, capacità tecnica, accuratezza, tenerezza, ottimismo; deve rispettare la resilienza e chi la esercita adeve stimare chi viene curato. Non la cura ha bisogno di queste caratteristiche, ma l’uomo e la donna che la ricevono perché ne possono fruire solo se è impostata secondo alcune condizioni. La cura è inquieta proprio perché queste possono variare, comparire e scomparire, aggregarsi in maniere diverse, essere più o meno importanti in tempi della vita… ma sono sempre indispensabili” (M. Trabucchi)

Per parlare d’”amore” inizio da questa frase riportata dal prof. Trabucchi in quanto diventa un ottimo apripista sull’argomento amore, nonché risulta essere un elisir concettuale rispetto a quanto si cercherà di affrontare sul concetto dell’amore.

Alle parole sopra citate si prova a fare un piccolo passo indietro e ragionare sui significati della parola “amore”. Tra le varie definizioni una risulta quella che più piace affiancare a questa parola:

sentimento di affezione verso una persona, che si manifesta come desiderio di procurare il suo bene e di ricercarne la compagnia”

Diventa importante saper razionalizzare gli elementi presenti durante un intervento non farmacologico, ed uno di questi elementi è proprio l’”amore”.

Ma è possibile razionalizzare un tale sentimento? Si cercherà di capire meglio se possibile analizzandone il significato.

È sentimento di affezione verso una persona. È un sentimento di affetto. Preclude una relazione che porta al voler bene e non solo alla persona difronte ma alla persona in quanto tale. È difficile pensare di riuscire voler bene a tutti, resta tuttavia importante capire che di bene non si è mai sazi e questo concetto vale per noi stessi come per le persone che seguiamo.

Si manifesta come desiderio. Parte quindi da un nostro bisogno, da una nostra necessità, dal nostro ricercare conferma, approvazione, dal nostro bisogno di amore verso noi stessi.

È volto a procurare il bene della persona. È un desiderio finalizzato all’altro perché è il feedback che appaga, il senso di efficacia, la gratificazione dell’altro per il nostro agire nei suoi confronti e quindi l’approvazione, la stima, la riconoscenza, il reciproco affetto.

Porta a ricercare la compagnia della persona. Ci mette nelle condizioni di mantenere costante il contatto fisico ed emotivo attraverso lo stare insieme con costanza.

Amore” però è anche sofferenza quando non ricambiato.

Spesso, nelle demenze, quando si raggiunge una situazione particolarmente difficile quale la comparsa di comportamenti problematici (BPSD) oppure situazioni di tale ingravescenza da cristallizzare l’altrui comunicazione, l’”amore” è anche fonte di un grande dolore. Una più o meno improvvisa perdita di scambio o di efficacia nella relazione può far sì che tutta questa ricerca di compagnia tenda ad affievolirsi quasi come se l’amore se non corrisposto anche per gravità della patologia sia comunque un motivo di distanziamento anche emotivo.

Si capisce che l’”amore” rischia di essere un elemento di instabilità nelle attività che proponiamo e pertanto tutta la spinta anche tecnica e scientifica risulta fortemente a rischio di essere inficiata in modo eccessivo dalle nostre emozioni.

Innanzitutto riconosciamo il nostro “amore”. L’”amore” è un elemento razionalizzabile quando è consapevole e quindi utilizzabile durante l’attività proposta. L’atteggiamento amorevole si manifesta attraverso espressioni di: compliance, seduzione, raccomandazione, autorevolezza, tenerezza, rimprovero, … e contatto al fine di ottenere la migliore risposta possibile allo stimolo o stimoli proposti.

L’emozione ed i sentimenti fanno parte del nostro agire, ma si deve esserne consci, capirne l’autenticità e riuscire a tradurli in quella cura di cui si parlava all’inizio.

La qualità nei trattamenti psicosociali/non-farmacologici è il rapporto tra: le persone che operano più l’insieme delle loro conoscenze tecniche e scientifiche, più un determinato tipo di atteggiamento per un certo lasso di tempo nei confronti della o delle persone che vivono con demenza con tutte le loro caratteristiche e peculiarità in un determinato stadio della malattia; il tutto all’interno di uno specifico ambiente che ha lo scopo di aumentare l’effetto dell’intervento stesso. Dopo molti discorsi fatti ecco quello che dovrebbe rappresentare il riassunto dei riassunti.

Il grande desiderio è che ci sia un modo di affrontare questa sfida quale la demenza attento, rispettoso e con grande impegno da parte di tutti.

Si è consapevoli che la ricaduta del nostro operato è sulle persone che oggi seguiamo e domani magari potrebbe esserlo anche su di noi?

Ci si sforzi quindi, ciascuno per la propria competenza, di mettersi a confronto con questa equazione arrivando a ragionarla sugli interventi psicosociali/non-farmacologici applicati alle demenze, la si sviluppi, la si renda stimolo a cercare e ricercare complessità sviscerando qualsiasi elemento allo scopo di migliorare gli interventi a favore delle persone che seguiamo. Se ne discuta, la si critichi anche per buona o per scarsa bontà della stessa. Ma l’importante è che permetta in maniera decisa di affrontare tutto ciò che serve a qualificare ciò che facciamo e soprattutto come lo facciamo.

Filippo Bergamo

Parte del contenuto è stata presa da “Viaggio nella qualità del non farmacologico applicato alle demenze” Filippo Bergamo 2020

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