Domande e risposte sulla Demenza di Alzheimer del dott. Ferdinando Schiavo, neurologo

Quali sono i fattori di rischio per la Demenza di Alzheimer? E’ una malattia
ereditaria?

Il più noto fattore di rischio per demenza di Alzheimer è l’età. La natura del rapporto fra
una malattia neurodegenerativa e invecchiamento è di difficile e controversa definizione
(queste considerazioni non riguardano una demenza tipicamente pre-senile, la Demenza
Fronto-Temporale). Appare però indubbio lo stretto legame che accomuna invecchiamento
e patologia degenerativa, considerato che il rischio di demenza aumenta con l’avanzare
degli anni. Le demenze più specificamente legate all’età (D. di Alzheimer, D. Vascolare, D.
a corpi di Lewy, Parkinson-Demenza) vanno comunque considerate entità cliniche e non
semplici, fisiologiche conseguenze dell’invecchiamento. Giustificare con il dato dell’età
avanzata, che peraltro è molto soggettivo, qualsiasi modificazione delle capacità cognitive
conduce all’errata interpretazione dei sintomi iniziali, alla loro sottovalutazione e ad un
colpevole ritardo nel percorso che porta ad una tempestiva diagnosi. Nel più tipico,
scorretto, superficiale comportamento di Ageismo. Dimentica ? E’ l’età! Fortunatamente al
mondo vivono tanti anziani, alcuni noti a tutti tramite i media, con capacità intellettive
rimaste integre, anziani che sconfessano l’equazione Età avanzata = Demenza.
La genetica della Malattia di Alzheimer è complessa. Esistono forme di demenza su base
genetica ereditaria che per fortuna sono in percentuale ridotta (max 2 %) ed hanno in genere
un esordio precoce, cioè in fasce di età “presenile” (40-60 anni). Responsabili del 50 %
circa di queste demenze familiari a esordio precoce sono sostanzialmente due geni
localizzati rispettivamente sui cromosomi 14 e 1 (Presenilina 1 e 2). Il primo ad essere
conosciuto è stato comunque quello dell’APP (Proteina Precursore dell’Amiloide), sul
cromosoma 21. Questo giustifica il riscontro delle placche di amiloide sia nella Malattia di
Alzheimer che nella Sindrome di Down (Trisomia 21, cioè con 3 cromosomi 21).

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Nella maggioranza dei casi, però, si può parlare di una predisposizione genetica, una
familiarità, soprattutto per quelle demenze che compaiono in tarda età, sulle quali hanno un
certo peso l’influenza delle malattie, dell’ambiente e dello stile di vita. Nel cromosoma 19
c’è infatti il gene interessato alla produzione di una sostanza, l’ApolipoproteinaE (ApoE), di
cui sono noti tre sottotipi principali. Di questi, l’ApoE-є4, presente nella popolazione
generale in proporzione del 15 %, rende più probabile, ma non certo, il verificarsi della
malattia, mentre i portatori dell’ ApoE-є2 (7 %) ne ricevono un effetto protettivo. Solo la
metà (o poco più) delle persone affette da Malattia di Alzheimer possiede nel proprio
bagaglio genetico il sottotipo є4 legato al rischio di sviluppare la malattia. Per i portatori di
questo sottotipo il rischio di andare incontro alla malattia di Alzheimer è del 30 % circa,
mentre scende al 10 % circa per i non portatori.
Per ogni singolo soggetto è complicato far previsioni pur in presenza di familiari con tale
malattia esordita in tarda età, per due motivi: 1. perché la patologia è frequente nelle persone
anziane e questo dato da solo giustifica il fatto che più elementi della stessa famiglia,
raggiunta l’età a rischio, possano manifestarla. 2. poiché a determinarla concorrono svariate
cause: età e familiarità, ambiente, stile di vita, certamente, ma anche alimentazione e fattori
di rischio vascolare, fra i quali ipercolesterolemia e alcune malattie spesso “silenziose”
come ipertensione arteriosa, cardiopatie e diabete, che vanno accuratamente e correttamente
trattate, anche in forma preventiva, traumi cranici, lunga storia di depressione, consumo di
alcool e di droghe, esposizione a solventi industriali, farmaci. In fondo, tutte le cause che in
qualche modo danneggiano il cervello.
Non meno rilevanti risultano, dai dati scientifici, la vivacità dei rapporti sociali come fattore
protettivo e, all’opposto, la bassa scolarità: quest’ultima in verità non va intesa solo come
anni di frequenza a scuola, ma allargata al concetto di cultura, di curiosità intellettiva, di
vivacità all’apprendimento, di disponibilità alla discussione e alla volontà di espandere in
qualsiasi maniera i propri orizzonti di conoscenza. Anche la bassa scolarità abbinata ad un

lavoro ripetitivo, come nella catena di montaggio, fa aumentare ulteriormente il rischio di
malattia.
Quali sono gli accertamenti che possono aiutarci a diagnosticare la Demenza di
Alzheimer e le altre demenze ?
E’ necessario procedere a un’esauriente raccolta della storia clinica: malattie influenti,
traumi cranici, farmaci, ecc.; poi il racconto dei sintomi cognitivi o comportamentali che
hanno allarmato il paziente o i familiari, a volte anche separatamente in due tempi, per non
ferire il paziente stesso ! Va effettuato un accurato esame neurologico e anche generale, un
test breve per valutare memoria ed altre funzioni cognitive (in genere il test MMSE, il “Mini
Mental”) ed eventualmente, in seguito e in casi particolari, una Valutazione
Neuropsicologica estensiva.
Come primo gradino di accertamenti, se il sospetto di un’alterazione “organica” cerebrale è
fondato, ovvero, se si ritiene che a determinare quel quadro possano concorrere lesioni
cerebrali di vario tipo, oppure alterazioni extra-neurologiche, come ridotto funzionamento
della tiroide, carenze vitaminiche, modificazioni di alcuni elettroliti come il sodio e il calcio,
e cause correlate (farmaci e varie patologie internistiche), bisogna procedere all’esecuzione
di alcuni idonei esami del sangue e di una TC o una Risonanza Magnetica “standard” (RM)
a livello cerebrale. In casi particolari, legati anche all’età del soggetto o alle difficoltà
diagnostiche, la ricerca si può estendere ad altri esami di neuroimmagine, come la SPECT o
la FDG-PET. Questi ultimi due sono esami che valutano se sono presenti aree cerebrali che
“funzionano meno”.
Inoltre, la RM, con particolari proiezioni in grado di misurare il volume ippocampale, cioè
lo stato anatomico di quell’area profonda dei due lobi temporali essenziale per i processi di
memoria, è in grado di fornire un ulteriore contributo per avvicinarci il più possibile alla
diagnosi esclusivamente della Demenza alzheimeriana.

La stessa RM, allargando le enormi potenzialità del mezzo, può fornire dati metabolici
attraverso i metodi diffusion, functional, voxel-based morphometry. Con quest’ultimo
metodo (Neurology 2011 Mar 1;76(9):822-9. Progressive regional atrophy in normal adults
with a maternal history of Alzheimer disease) Honea RA ed altri autori hanno confermato la
presenza di anomalie di tipo atrofico in alcune aree cerebrali particolarmente dedicate ai
processi di memoria (come, appunto, l’ippocampo ed aree funzionalmente collegate) in
adulti sani figli di madri che hanno sviluppato una Demenza di Alzheimer “tardiva”,
confermando altri lavori scientifici effettuati con FDG-PET dal cervello in fuga italiano
emigrato in USA Lisa Mosconi e collaboratori (Neurology 2009 Feb 10;72(6):513-20.
Declining brain glucose metabolism in normal individuals with a maternal history of
Alzheimer disease).
Per intenderci, quindi, TC e RM cerebrale “standard” servono essenzialmente ad escludere
la possibilità di “sorprese” come tumori ed ematomi, idrocefalo, lesioni vascolari, ecc., ma
non a “far diagnosi” di certezza di demenza e di tipo particolare di demenza, anche se
unitamente agli altri dati, possono avvicinarci ad una diagnosi di forte probabilità. Ad
esempio, in un caso che presenta atrofia frontale e/o temporale cerebrale alla semplice TC,
una ridotta attività funzionale alla SPECT o alla PET nelle stesse aree, un’età presenile, e
manifesta sintomi comportamentali o del linguaggio con una particolare evoluzione clinica,
tutti questi dati citati fanno sospettare una Demenza Fronto-Temporale.
La certezza assoluta della diagnosi di un determinato tipo di Demenza si ottiene con
l’esame autoptico (o eccezionalmente bioptico, cioè in vita…).
In verità, due delle più recenti tecnologie diagnostiche che utilizzano Marcatori Biologici,
ma esclusivamente per la Demenza di Alzheimer, danno la possibilità:
A. di procedere a una diagnosi differenziale fra Demenza di Alzheimer e altre forme di
demenza
B. di fornire inoltre l’opportunità di una diagnosi precoce (esclusivamente, ripeto) della
Demenza di Alzheimer, con alcuni limiti.
Si tratta in breve di:

1. un esame liquorale (pertanto invasivo, ovvero attraverso una puntura
lombare) che rivela la presenza di modificazioni dei livelli di due proteine
cerebrali alterate, amiloide e tau, che rappresentano, appunto, i veri marcatori
biologici della malattia
2. un esame, la PIB-PET cerebrale, una PET con un tracciante che mette in
luce il carico del deposito cerebrale di amiloide.

Le due metodiche sono fondate, quindi, sulla presenza di beta-amiloide-42 nell’encefalo (e
nel caso dell’esame liquorale anche della proteina Tau: ambedue, alterate, provocano danni
neuronali degenerativi). Purtroppo, ciò avviene sia in individui con la Malattia associata ai
sintomi della Demenza di Alzheimer, sia in altri con la “semplice” Malattia. Cosa vogliono
dire questi due termini, Malattia e Demenza ? Semplicemente, che, nel primo caso, esistono
cervelli di persone con elevati livelli di deposito cerebrale di beta-amiloide-42 i quali
manifestano i sintomi clinici della Demenza, ed altri che pur essendo nelle stesse condizioni
“anatomiche” stanno cognitivamente bene (ma sono “Malati”): nel primo caso i termini
Malattia e Demenza di Alzheimer coincidono, nel secondo dovremmo definire il quadro
come Malattia di Alzheimer senza demenza (o Pre-Demenza Asintomatica di Alzheimer o
Stadio preclinico di Demenza di Alzheimer).
La ricerca delle alterazioni dei Marcatori Biologici, oltre all’utilizzazione nelle ricerche
cliniche, è consigliata nella pratica corrente 1. per confermare una Malattia di Alzheimer in
fase preclinica in pazienti cognitivamente indenni (magari con forte sospetto di malattia
genetica), 2. per supportare la diagnosi di pazienti con sintomi iniziali e 3. per la diagnosi
differenziale rispetto alle demenze degenerative di altra natura.
Questi due esami, come si può comprendere, non sono di “semplice” esecuzione: lo studio
liquorale richiede, appunto, una puntura lombare e un laboratorio attrezzato, la PIB-PET
non è ancora un esame eseguibile in tutte le strutture di Medicina Nucleare. Inoltre, a livello
pratico, la PIB-PET mette in risalto l’impossibilità di costruire un modello di correlazione
tra quantità di beta amiloide cerebrale e prognosi di demenza alzheimeriana. Un dato
illuminante proviene da uno studio su coppie di gemelli monozigoti, confrontati con gemelli
eterozigoti e un campione di fratelli non gemelli (Scheinin NM et al. Early detection of
Alzheimer disease:11C-PIB-PET in twins discordant for cognitive impairment. Neurology
2011). In questo lavoro alcune coppie di gemelli monozigoti, sottoposti alla PIB-PET, sono
risultate abbondantemente e similmente colpite dal deposito della beta amiloide a livello
cerebrale, ma non condividono i sintomi clinici, ovvero: non sempre ambedue mostrano i

segni clinici della demenza, bensì solo uno dei due gemelli! Gli eterozigoti si comportano
statisticamente come i fratelli non gemelli, i quali possono rappresentare un campione di
popolazione presa a caso per utilità di confronto. Per essere chiari, a costo di ripetermi: uno
dei gemelli monozigoti ha i sintomi, l’altro no, malgrado abbiano un cervello similmente
compromesso alla PIB-PET.
La discordanza tra deposito cerebrale di beta amiloide e presenza o meno di sintomi
cognitivi conduce in definitiva a 4 riflessioni:
1. esiste una distinzione di cui tener conto, come già scritto, fra Malattia preclinica
e Malattia “conclamata”
2. in soggetti con la stessa vulnerabilità genetica incidono notevolmente i Fattori
Ambientali acquisiti (stile di vita in senso ampio, malattie influenti, sostanze e
medicine assunte, avvenimenti ed esperienze, ecc.) che modulano l’espressione
clinica genetica e del danno neurologico conseguente evidenziato dalla PIB-PET e
dai marcatori liquorali. I geni caricano il fucile ma è l’ambiente che preme il
grilletto!
3. “I’am fine; I’m just waiting for my disease…” (Sto bene; sto appunto aspettando
la mia malattia…): è parte significativa del titolo di un editoriale di Neurology del
2011 (Kwon JF, Steiner RD. I’m fine; i’m just waiting for my disease. The new and
growing class of presyntomatic patients. Neurology 2011;77:522-3) molto critico sul
significato delle diagnosi presintomatiche di malattia gravi e progressive in individui
al momento sani. Ci si chiede: i gemelli monozigoti malati ma senza sintomi di
demenza quando svilupperanno i sintomi? Nessuno di questi esami è in grado al
momento di predirlo! Magari, aggiungo, se il gemello senza sintomi vivrà a lungo,
potrà manifestarli a 92 anni e, se morirà poco prima, diranno di lui che è morto
“lucido” e cognitivamente integro! Ci si domanda, con giustificata vena polemica: ha
senso proporre una diagnosi quando una persona è ancora asintomatica,
togliendole con anni di anticipo la possibilità di una vita serena? Altri, tuttavia,
sostengono posizioni diverse che valorizzano la responsabilità dell’individuo rispetto
al proprio futuro, anche se ciò comporta un notevole stress, soprattutto a causa delle
scarse possibilità attuali di cura (Trabucchi Marco e Bianchetti Angelo. Il confine
difficile tra la Malattia di Alzheimer e le altre demenze. Psicogeriatria 2011; 2 –
supplemento).
4. In una persona che ha superato gli 80 anni, come la stragrande maggioranza dei
nostri pazienti, usualmente fragile per le diverse patologie che la affliggono, non
possono certamente essere proposti di routine accertamenti sofisticati come la PIB-
PET, per non parlare dell’esame liquorale, invasivo, salvo in casi clinici particolari
oppure per richieste sottolineate dai familiari, ma pur sempre da discutere e
condividere.
Sono soprattutto i familiari dei pazienti con storia di Demenza quelli che sollevano spesso il
tema del rischio personale di sviluppare la malattia: è un naturale e comprensibile
atteggiamento, anche a prescindere dalle possibilità di intervento terapeutico, e richiama la
necessità di una diagnostica puntuale. Ma fino a che punto ? Qui entra in gioco la
personalità del familiare stesso e la sensibilità del medico, il quale ha due compiti: non può
omettere queste informazioni ai familiari e deve coinvolgerli nella scelta del cammino

diagnostico sia per il paziente malato che, se espressamente richiesto, per il familiare
asintomatico che “vuole sapere” dei suoi rischi presenti e futuri.
In conclusione, fattori genetici e ambientali sono in gioco nel determinare alcune forme di
demenza. Essi agiscono, per citare solamente i quadri clinico-patologici principali, nella
Malattia di Alzheimer, nelle Demenze Fronto-Temporali, in alcune forme di Demenza
Vascolare, mentre appare tuttora incerto il ruolo del determinismo genetico per la Demenza
a corpi di Lewy. Se per la Demenza di Alzheimer nell’ultimo decennio sono stati fatti passi
avanti per avvicinarci quanto meno ad una qualche “certezza” diagnostica, permangono
difficoltà quando il caso clinico fa propendere per altre forme di demenza, peraltro prive di
sicuri marcatori biologici.

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