Due mondi. Includere la vecchiaia nella cultura mainstream attraverso la “leggerezza” – di Adriana Tidona

Chi si interessa di invecchiamento lo sa già: dati, ricerche ed evidenze empiriche ci mostrano come l’andamento demografico stia seguendo un decorso progressivo che ci vedrà, in un breve futuro, più longevi ma meno in salute.

 

Nonostante questa notizia sia chiara ai settori vicini al “mondo anziano”, non è altrettanto evidente per il cosiddetto “mondo fuori”.

 

 
Per “mondo fuori” mi riferisco a quell’universo esterno (ed esteriore) a quel succede ai nostri anziani e che, in questo articolo, rappresenta il quid della questione. Se l’invecchiamento e le sue sfere di interesse, infatti, è destinato, come tema, preoccupazione e oggetto di pensiero, ad una platea di addetti ai lavori o di caregiver, che speranze abbiamo – noi addetti ai lavori –  di riuscire a parlarne e di farci ascoltare anche da quel mondo che non ci appartiene?

 

Nella nostra cultura dominante, la vecchiaia è presa raramente in considerazione in sé e per sé, per uno scopo – potremmo dire – meramente culturale o speculativo. E ciò nonostante abbia una moltitudine di angolazioni interessanti dalle quali poterla guardare e che potrebbero essere approfondite in senso filosofico, sociologico, artistico, tecnico-clinico…

 

“Invecchiare”, per esempio, vuol dire fare i conti con la propria maturità morale; significa domandarsi chi si è stati per sapere, nel presente, chi possiamo essere ancora. Vuol dire fare i conti con la propria salute, sia fisica sia psicologica, senza procrastinare e senza nemmeno comportarci come se dovessimo morire domani. Invecchiare, vuol dire, in sintesi, avere continue occasioni di scoperta di sé e del mondo. Significa vivere momenti per far sorgere costantemente nuove domande.

 

Invecchiare, in senso filosofico-esistenziale, vuol dire vedere la vita nella sua dialettica, cioè come movimento costante.

 

C’è da dire, tuttavia, che questi esempi di “opportunità” che la vecchiaia genera nella nostra vita implicano un atto di presa di responsabilità. Fare i conti con sé stessi, infatti, vuol dire essere disponibili a vedere il bello e il brutto. Ma il punto qui è proprio questo: non si nega alla vecchiaia la sua serietà e la sua difficoltà. Si nega invece la “mono – interpretazione” di questa fase della vita come fase “grave”, “opaca”, “negativa”, “pesante”.

 

Qui l’operazione di pensiero è una sola, ed è simile a un’addizione: bisogna aggiungere alla vecchiaia una componente nuova e inedita, non sottrarle gli aspetti più complicati, che comunque la connotano.

 

E allora, per farlo, andiamo a scomodare un concetto che è stato posto al centro delle Lezioni Americane di Italo Calvino: la leggerezza. Proprio in quelle conferenze, Calvino cerca di spiegare la leggerezza usando una metafora tratta dal mito di Perseo e Medusa. 

La leggerezza, secondo l’interpretazione che Calvino fa del mito, è rappresentata da Pegaso, il cavallo alato di Perseo, l’elemento (leggero) attraverso il cui aiuto Perseo riesce a raggiungere Medusa, il mostro grave (peso), e a mozzarle la testa.

 

Pur senza andare incontro a un’esegesi che in questa sede sarebbe inadeguata, il punto su cui possiamo riflettere è questo: esiste una leggerezza solo nella misura in cui esiste un peso che la genera. E nessuna dimensione può sopravvivere da sola.

 

Usare la categoria della leggerezza per la vecchiaia, significa riconoscere il carattere di complessità di questa, aggiungendo però un elemento non la banalizza, non sorvola sulle sue difficoltà, ma la assume profondamente per quel offre davvero.  Usare la leggerezza significa dunque scegliere una visione generativa e non distruttiva, vuol dire lasciar prevalere la strada dell’apertura e della possibilità a quella della chiusura e della necessità.

 

Aggiungere leggerezza alla vecchiaia vuol dire, in ultima analisi, avvicinare la “dimensione futuro” alla terza età, la quale è, simbolicamente, la rappresentazione dell’apertura.

 

Con questo piccolo – ma complicatissimo – atto di pensiero, “vecchiaia” può smettere di voler dire unicamente spegnimento, deprivazione, ma può iniziare ad avere valore in sé, un valore diverso per ogni persona. Finalmente libero e finalmente positivo.

 

È chiaro che questa riflessione, per chi è più competente di me in materia psicologica, impone il rapportarsi al tema del fine vita, al significato che la morte ha per ciascuno di noi. 

 

Perché se nella nostra cultura dominante la vecchiaia rimanda alla nostra morte, rendendosi evitabile al nostro pensiero allo stesso modo della morte, allora dovremmo fare i conti anche con questo tabù e includerlo nei nostri discorsi, in quelli che facciamo di fronte a noi stessi e in quelli che facciamo con gli altri.

 

Ma facciamo un passo alla volta: si tratta di percorsi di maturazione lunghi e difficili, di cambiamenti culturali che possono essere altresì facilitati dalla categoria “leggerezza” e che, insieme, ci portano al nostro unico obiettivo, quello di vivere una vita piena e degna di essere vissuta.

 

 

Abbiamo bisogno di più leggerezza, di più dialogo con l’invecchiamento non solo per noi stessi, ma anche per la responsabilità morale che abbiamo verso gli altri e che ci spinge a fare i conti con un tema come la vecchiaia anche prima di dover affrontare questa fase nella nostra vita.

 

Se, a partire da oggi, facciamo un percorso per una rivalutazione culturale e in chiave positiva dell’invecchiamento, ne conseguirà infatti un effetto sulla cura dei nostri anziani di oggi. E dunque ne conseguirà una soluzione anche per quello che si diceva all’inizio, una soluzione al cambiamento demografico.

 

Se, dall’interno del settore dell’assistenza agli anziani, ci sgoliamo per la penuria di risorse, per gli standard inadeguati dei nostri servizi residenziali e semiresidenziali, se abbiamo bisogno di creare associazioni, se abbiamo necessità di sistemi di tutela per i nostri anziani è perché la nostra cultura di base sull’anzianità è povera, presenta lacune.

 

Ed è questo spazio vuoto all’interno della nostra cultura, questa piccola intercapedine che oggi vi chiedo di considerare come un centimetro che, lasciato nelle fondamenta di una casa, genera, pur piccolo, un effetto enorme.

 

Colmare questo centimetro significa fare spazio alle voci, elle emozioni, e significa anche fare un passo indietro su ciò che abbiamo detto o pensato fino a questo momento sulla vecchiaia e sul mondo. Significa osservare la realtà a cui apparteniamo e renderci liberi e aperti a cambiare opinione o a includere qualcosa che non avevamo considerato prima.

 

È per questo che oggi, per dare corpo a queste riflessioni, vi propongo di iniziare questo cammino con un’azione specifica: ascoltare le voci di tutti quei professionisti che durante la pandemia si sono spesi per i nostri anziani. Le testimonianze di coloro che non hanno davvero lasciato entrare il Covid nelle strutture come se non avessero a cuore gli anziani. Che hanno seguito procedure stringenti senza negligenza. Che si sono chiusi nelle RSA lontani dalle famiglie per limitare i contagi e per sopperire alla mancanza di personale. Che hanno perso anche loro persone care. Che non hanno mai pensato che le RSA fossero posti da chiudere, né tantomeno che fossero luoghi di occultamento, morte e trascuratezza.

 

Ecco, il primo passo di questo intervento di inclusione della vecchiaia nelle nostre vite, potrebbe essere quello di un ascolto, di un’apertura alle narrazioni provenienti dall’interno di quel mondo.


La casa Editrice Dapero ne ha raccolte alcune e ha voluto immortalarle in due pubblicazioni che qui vi presento.

 

La prima è “Reduci. Quando il Covid entrò in RSA” di Andrea Benelli, che è la storia di un direttore che, per salvare se stesso, ha deciso di scrivere un diario della pandemia, per non lasciare nulla all’oblio e, allo stesso tempo, per rendere giustizia ai professionisti della sua squadra che stavano lottando insieme a lui per il bene degli anziani. 

 

https://www.editricedapero.it/prodotto/reduci/

 

La seconda è “Mi ricorderò per sempre. Voci, sguardi ed emozioni dall’interno delle RSA lombarde”. Scritto sotto la curatela di Paola Cattin, questo libro è invece una narrazione-mosaico che raccoglie più testimonianze provenienti dalla penna e dal cuore di numerosi professionisti lombardi che hanno risposto favorevolmente ad un contest letterario che la casa Editrice ha lanciato con l’Associazione UNEBA.

 

https://www.editricedapero.it/prodotto/mi-ricordero-per-sempre/

 

Dal bisogno di raccontare e di farsi ascoltare sono venuti fuori due libri, che sono molto più di semplici pagine, sono la lotta della memoria contro l’oblio, il bisogno di elaborazione dei vissuti dolorosi e la prima pietra di inclusione di questo mondo, quello della vecchiaia, all’interno del nostro, quello mainstream.

 

Forse, prima o poi, il mondo sarà per tutti lo stesso. Forse un giorno smetteremo di dire “dentro” e “fuori”. Dico forse perché dipende unicamente da noi.

 

Buone letture.

Adriana Tidona

(Ufficio Stampa Editrice Dapero e responsabile di CURA online)

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