Si sa che gli anziani sono più ferrati nella memoria a lungo termine, anche perché i ricordi di un’età passata hanno spesso un valore affettivo. Per stimolare questa facoltà e per suscitare qualche emozione legata all’infanzia, può essere indicato consultare il libro “Zoghi de fioi”, edizioni il Murice, di Liliana Bamboschek, esperta in tradizioni locali. La scrittrice si era documentata con delle testimonianze dirette, ricorrendo anche ai ricordi personali. Il libro è diviso per tematiche, inizia con i giochi per bambini piccoli (cucu, bau sette, batti le manine), e le filastrocche: chi non ricorda “Ghirin ghiri’n gaia, Martin su la paia, paia paiuza, cic una s’ciafuza”, e quanti capricci infantili sono stati rintuzzati dal ritornello “Pianzoto pestapevere, co l’oio de bacalà”.
Altre si imparavano all’asilo: “La storia de sior Intento, la dura molto tempo”, “Din don campanon tre putele sul balcon” “Ai bai tu mi stai, tie mie compagnie” “Uccellin che vien dal mare, quante penne può portare”, e così via. Ci sono poi i giocattoli veri e propri, che in realtà venivano costruiti autonomamente, come le bambole fatte di carta e di stoffa o i carretti in legno, oppure si usavano oggetti presi a prestito dalla natura, come le pigne o i sassi. Fra questi le famose lavre, delle pietre piatte che si tiravano un po’ come le bocce, uno svago che oggi viene attualizzato usando dei piattelli dall’Associazione sportiva Benessere, che organizza tornei anche per gli adulti. I giochi di gruppo si svolgevano in strada o nei cortili dei condomini: indispensabili i gessetti per tracciare le piste dove far correre le s’cinche o i tappi corona, in appassionanti gare fra ciclisti o automobilisti di un campionato.
Più adatto alle bambine il classico “Porton”, dove si saltava a “gamba fasul” fra i riquadri disegnati a rettangolo, o “Le belle statuine”, immobili nella posizione prescelta. Altri giochi valevano per entrambi i sessi, anche se le bambine, nota la Bamboschek, venivano tenute un po’ in inferiorità; fra questi lo “sconderse”, i quattro cantoni, postazioni da scambiare cercando di recuperare il nuovo angolo per non finire in mezzo, e poi i vari tipi di Sesa, “libera, color, cuceti”. Della Sesa occorreva liberarsi, come una specie di malattia; dicendo “te la dago” la si trasferiva a un altro toccandogli la spalla, ma chi era in linea con la regola vigente restava immune. Tempi felici in cui bastava esibire il colore giusto per evitare il contagio. A volte si formavano delle squadre, spesso contrapposte, come in “Guardie e Ladri” . Fra i maschi si formavano delle bande, che richiedevano naturalmente un capo e una serie di sottoposti insigniti di varie mansioni, come dire che lo schema gerarchico vigente nella società si riflette fin negli albori del vivere in comunità. Erano giochi che educavano alla socialità, alla competizione, allo sforzo fisico: un patrimonio da spendere nel resto della vita, e c’è da chiedersi quali ricordi e quali abilità (oltre a quella di digitare freneticamente su uno schermo) si porteranno dietro i ragazzi di oggi, nutriti di giochi elettronici e appesi tutto il giorno ai loro cellulari.