Il pessimismo di Schopenhauer – di Carlo Della Bella

La filosofia di Arthur Schopenhauer [Danzica 1788 – Francoforte 1861] – comunque la si consideri, con entusiasmo o con disprezzo, come è stato fatto – rappresenta una componente originale e controcorrente nel pensiero non solo tedesco dell’Ottocento. Schopenhauer [d’ora in poi S.] delinea una dottrina fondata sul dualismo tra realtà e apparenza, riabilita nozioni sconosciute alla filosofia, come corporeità ed esistenza, ad una cultura fiduciosa nel progresso contrappone la sua concezione irrazionale ed antiprovvidenziale del mondo, mette in crisi e smaschera come illusoria la fede nella bontà e nella capacità di autoperfezionamento dell’uomo. Ancora: S. avanza dubbi sulle capacità conoscitive della ragione umana e della scienza; S. ha introdotto nella cultura europea motivi della filosofia indiana, che egli fu tra i primi a studiare. Più in generale, a S. va il merito di aver elaborato principi filosofici nuovi, destinati ad entrare nella cultura del Novecento, quali le nozioni di inconscio e di lotta per la vita, la funzione liberatoria dell’arte, la riflessione su aspetti psicologici del vivere quotidiano (come gioia, dolore, felicità, noia).

Prendiamo brevemente in esame il suo capolavoro filosofico. Il mondo come volontà e come rappresentazione, che uscì già nel 1819, non ebbe alcun successo e per un decennio rimase ignorato. Per S. il mondo dal punto di vista fenomenico è pura rappresentazione (Vorstellung), mentre nella sua essenza profonda è volontà (Wille). S. non crede che il mondo abbia un “senso”, né che l’uomo possa comunque comprenderlo. Gli eventi fisici che noi possiamo conoscere ci danno solo una “rappresentazione” del mondo: secondo un principio della filosofia indiana, che S. fa suo, essi sono “il velo di Maya” che ci cela la realtà. Le cose non hanno fondamento né ragion d’essere; il significato del mondo, in quanto nostra rappresentazione, dipende da noi. La scienza non è in grado di cogliere le cause ultime dei fenomeni, si limita a descriverli. In una pagina, che offrirà spunti di riflessione a Nietzsche, S. ha scritto: «Ogni spiegazione scientifica, in quanto non può fare niente di più se non mostrare due o più rappresentazioni nel loro reciproco rapporto, lascia dunque inesplicata l’intima essenza tanto di una pietra che dell’uomo.» Comunque S. ammette che la scienza soddisfa i bisogni pratici degli uomini.

Ma – diversamente da quanto credeva Kant – per S. l’uomo è in grado di guardare oltre i fenomeni e può farlo grazie all’intuizione: «La filosofia comincia – afferma S. – là dove le scienze finiscono… Noi ci domandiamo se questo mondo sia qualcosa d’altro, oltre che rappresentazione, e vogliamo sapere che cosa sia.» É grazie a questa aspirazione che l’uomo scopre la propria corporeità: il corpo infatti, in superficie “rappresentazione” come tutti i fenomeni, in profondità si manifesta come “volontà”, grazie al complesso gioco di impulsi ed emozioni che si agitano dentro. L’uomo scopre che il suo corpo è volontà oggettivata: «Solo la volontà – scrive S. – gli mostra l’intimo congegno del suo essere e del suo agire.» Questa centralità metafisica del corpo è la strana e originale intuizione filosofica di S. che non ha riscontri nella filosofia occidentale. Da ciò generalizzando – spiega S. – l’uomo giunge a concludere che la volontà è la cosa-in-sè di tutti i fenomeni naturali, cioè il Wille cosmico.

Ma cos’è la volontà per S.? É oscura e terribile energia del mondo, è forza cieca, a-razionale, a-morale, a-finalistica, è un “tendere” verso qualcosa di indefinito, ma non il sereno “streben” romantico. Il riferimento è stato fatto invece alla libido freudiana. Essa raggiunge il massimo livello nel regno animale, dove – scrive S – “la volontà di vivere divora perennemente se stessa”. La volontà non obbedisce né alla ragione né alla morale, è un infinito tendere senza una meta ultima. Ora, l’energia infinita del Wille si “oggettiva” in enti finiti: così ogni ente si sente incompiuto, inadeguato e desideroso di andare oltre se stesso, ma impotente a farlo. É questa la radice dell’infelicità che pervade tutti gli enti, ma coinvolge in modo particolare l’essere umano, il quale si sente, per sua natura, “mancante” di qualcosa. «Il più bisognoso degli esseri – lo definisce S. – La sua vita oscilla come un pendolo tra il dolore e la noia… Gli uomini assomigliano a orologi, che vengono caricati e camminano senza sapere il perchè… La vita è solo una morte rinviata, un veleggiare verso la morte.»

Cosa possiamo fare per tentare di sottrarci, almeno temporaneamente, alla volontà? Non esiste una “cura” al male di vivere, tuttavia S. ci indica dei palliativi: primo l’arte. Sull’esperienza artistica e sulla sua carica liberatoria S. ha scritto pagine celebri: «L’arte libera l’uomo dalla propria individualità… In virtù dell’arte si è consapevoli non più di stessi, ma degli oggetti intuiti… L’arte apre agli uomini una nuova, felicitante dimensione dell’essere.» Fra tutte le arti S. privilegia la musica. E tuttavia “la luce dell’arte” presto si spegne, non può dare che un conforto temporaneo, non redime il mondo dal suo male più profondo. Occorre aggredire il male di vivere alla radice. Ecco allora la ricerca di forme di comportamento che limitino e riducano la volontà: non impulsi o motivi, bensì quietivi, tendenti a frenare, placare. S. dedica a questo l’ultima parte de “Il mondo” e qui emergono le componenti spiritualistiche della sua filosofia, che recupera elementi del cristianesimo antico e dell’ascetismo orientale. Il suicidio non gli sembra una soluzione, quanto piuttosto un’affermazione di sé, senza tener conto degli altri. Su questo si veda, a confronto, nelle Operette morali di Leopardi il Dialogo di Plotino e Porfirio, dove Plotino cerca di dissuadere l’amico dal gesto estremo non con principi generali, bensì con parole che toccano il cuore: «Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita…Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme per compiere nel miglior modo questa fatica della vita.» L’amore può servire, ma non inteso come passione erotica, bensì come compassione per il destino di infelicità e di dolore che lega tutti gli esseri umani. Tuttavia il culmine nella pratica morale di liberazione (per quanto possibile) dalla volontà S. lo vede nell’ascesi, che significa castità, rassegnazione, sacrificio: non quindi un’azione, ma uno stato di annullamento di sé e di ogni pulsione vitale; non più voluntas cioè volontà, ma noluntas, non-volontà. Tale scelta esistenziale, la vita ascetica – celebrata nel Medioevo quale meta spirituale per la salvezza – conduce invece per S. ad un esito inquietante: la contemplazione del nulla, il nichilismo.

La cupa visione del mondo e dell’uomo tratteggiata da S. ha avuto importanti riscontri nel pensiero e nella cultura. Tolstoj ha definito S. “il più geniale degli uomini”. La concezione dell’uomo come “essere incompiuto e mancante” sarà alla base dell’esistenzialismo di Heidegger e Sartre. La vita come bisogno profondo, come “sorgente di desiderio”, ritorna in Freud, che non ha esitato ad esprimere il suo debito nei confronti di S. Da noi lo stesso Italo Svevo vedeva in S. un suo filosofo di riferimento. Thomas Mann considerava l’umanesimo pessimistico di S. uno degli atteggiamenti spirituali più seri e nei Buddenbrook lo cita a lungo. Infine Nietzsche esalta nel filosofo di Danzica il vero educatore della cultura tedesca del suo secolo.

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