Invecchiamento della popolazione e “nuove” malattie neurogeriatriche nell’epoca della medicina della fretta – di Ferdinando Schiavo, neurologo (articolo condiviso dalla rivista online “I luoghi della Cura “)

l concetto di salute si è modificato nel corso degli anni. Lo stato di salute non viene più identificato unicamente con l’assenza di malattia, ma con il mantenimento del benessere psicofisico e relazionale pur in presenza di polipatologie.……..

Il termine “anziano fragile” si applica ad un paziente che spesso viene sottovalutato dalla medicina tradizionale. Fino a pochi anni fa, questo tipo di paziente era numericamente poco rappresentato e non suscitava interesse o gratificazione professionale, poiché veniva considerato incurabile o difficile da curare. La gestione di un paziente fragile richiede una solida conoscenza in campo gerontologico, una grande preparazione clinica unita al “buon senso” e un’esperienza profondamente matura, in cui l’aspetto motivazionale deve svolgere un ruolo fondamentale.

L’anziano/a fragile è un soggetto che, più frequentemente di genere femminile, è di età avanzata o molto avanzata e affetto da multiple patologie croniche. … A complicare la gestione clinica di questo tipo di paziente concorre il fatto che le patologie di cui soffre si presentino a volte in maniera atipica, rendendo arduo ogni tentativo di formulare una diagnosi precisa e di conseguenza un trattamento idoneo. Le sue limitate capacità di recupero aumentano il rischio di perdita di peso, malnutrizione, disidratazione, reazioni avverse ai farmaci e di interventi diagnostici e chirurgici.

La fragilità rappresenta l’espressione di un’estrema precarietà degli equilibri dell’organismo, causata dalla compromissione contemporanea di più sistemi anatomo-funzionali….. L’anziano fragile non è in grado di reagire efficacemente agli eventi che disturbano il suo già incerto equilibrio, come ad esempio una temperatura ambientale inusualmente elevata, il riacutizzarsi di una malattia cronica, l’instaurarsi di una malattia acuta anche se di modesta entità (un banale episodio influenzale, una cistite), un evento traumatico sia di natura fisica che psichica, un procedimento diagnostico invasivo o incongruo, oppure condotto senza la dovuta cautela o un intervento farmacologico inappropriato, possono turbare l’equilibrio fragile dell’anziano.

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invecchiamento coinvolge sempre più persone e le malattie stanno cambiando. Parallelamente all’aumentata aspettativa di vita si è verificato un mutamento epidemiologico delle patologie: da una situazione in cui erano prevalenti le malattie infettive e carenziali si è passati a una prevalenza di quelle cronico-degenerative e all’emergere della condizione di fragilità……

Gestire la complessità al di fuori dai vecchi paradigmi nei quali ad una semplice causa corrisponde un semplice effetto, è un compito arduo. Nella persona anziana lo schema della mono-malattia si avvera piuttosto raramente: la mono-malattia è un avversario contro cui ci si impegna avendo come obiettivo, peraltro, la guarigione. L’obiettivo della medicina per il paziente anziano dovrebbe essere invece, la qualità della vita e non quello della guarigione di tutte le condizioni patologiche di cui di regola è affetto.

Accanto a questi aspetti, la relazione tra medico e paziente è andata incontro in modo indiscutibile a crescenti difficoltà, paradossalmente da quando la medicina ha sviluppato terapie efficaci per le malattie e una vasta gamma di macchinari diagnostici. Con la specializzazione in diverse aree mediche, si è passati da medici che “conoscevano un po’ di tutto” a una frammentazione del corpo del paziente e delle conoscenze mediche. Ci si è concentrati sugli organi e non sull’organismo nel suo insieme. Sorge quindi la domanda: chi coordina chi? Nella relazione medico-paziente, quando si verificano diverse malattie, la frammentazione delle competenze può portare a una riduzione delle responsabilità. Le responsabilità si disperdono all’interno del gruppo di medici coinvolti, rendendo difficile identificare chi sia responsabile per coordinare gli accertamenti eseguiti e la terapia globale, solo per citare due aspetti pratici che la medicina territoriale deve affrontare. Inoltre, bisogna considerare gli esami diagnostici: l’illusione di poter risolvere tutto attraverso esami diagnostici e, contemporaneamente, proteggersi legalmente attraverso la pratica della medicina difensiva.

Infine, il corpo del paziente viene spesso trascurato dal medico, mentre diventa prioritaria la prescrizione di esami che esplorano gli organi……La mancanza di contatto medico-paziente è dovuta a dinamiche più ampie come la crescente abitudine, da parte della classe medica, ad avviare procedure diagnostiche (ad esempio un’ecografia addominale per una patologia in quella sede) ancor prima di effettuare una valutazione clinica “classica” attraverso una appropriata anamnesi e, in particolare, le manovre consuete di palpazione dell’addome note da decenni), mentre da parte dei cittadini si assiste alla muta assuefazione verso questi comportamenti.

Se poi vogliamo parlare delle demenze “….

È fondamentale sottolineare le difficoltà e gli ostacoli che si incontrano già nelle prime fasi per arrivare a una diagnosi di demenza. …. solo il 50% dei pazienti con una forma di demenza viene oggi diagnosticato” (Connolly et al., 2011). Gli altri sono fantasmi, nascosti nelle case o nelle RSA, non identificati o al massimo edulcorati sotto terminologie vergognose perché aspecifiche e che nulla hanno da invidiare alle fumose e fantasiose diagnosi degli Ospedali Psichiatrici di una volta che avevano dalla loro come scusante la reale mancanza di conoscenze. Forse le cose stanno peggiorando. Il Rapporto Mondiale Alzheimer del 21 settembre 2021 stima che il 75% dei casi attuali nel mondo non abbia una diagnosi ufficiale, aggiungendo, tra altre criticità, che persino nei paesi più sviluppati un medico su tre sostiene che la diagnosi sia inutile poiché non esiste ancora una cura. Trovo terrificante, ma purtroppo attuale, il fatto di (non) affrontare un tema scottante e in progressivo aumento che riguarda, appunto, le demenze. Ho provato a sintetizzare…. le sei dinamiche principali che, secondo la mia esperienza, si contrappongono ad una diagnosi tempestiva.

  1. Il “razzismo dell’età” ovvero l’ageismo, rappresenta un ostacolo alla diagnosi (“è vecchio, è normale che dimentichi, che faccia errori…”), poiché spesso si tende a considerare i sintomi legati all’età anziché riconoscerli come possibili segni di demenza.

  2. L’auto-ageismo (“ma dottore, ho la mia età!”; “ma non ho bisogno della badante”; “ma voglio continuare a guidare, sto bene malgrado i due incidenti”). Questi ed altri casi possono essere determinati, aggravati, dalla “variabile impazzita” ovvero dall’assente coscienza di malattia, un aspetto dannoso a sé e agli altri che complica il prendersi cura di una persona con demenza. L’auto-ageismo si riferisce alla resistenza delle persone anziane nel riconoscere e accettare i sintomi della demenza, spesso negando o minimizzando la necessità di cure e supporto.

  3. Le demenze giovanili sono un aspetto importante da considerare, poiché colpiscono persone al di sotto dei 65 anni e presentano sfide diagnostiche specifiche. Inoltre, la malattia può avere un impatto significativo sulla vita lavorativa e familiare dei pazienti giovani. Questi sono circa 4 milioni di persone al mondo allo stato attuale. Si tratta certamente di un evento inaspettato, a volte mentre la persona è ancora al lavoro, e magari subisce mobbing e demansionamento, lavora anche il\la coniuge e fa fatica ad accudirlo\a, i figli non sono ancora indipendenti. Tra le difficoltà diagnostiche, segnalo che persino la demenza di Alzheimer giovanile frequentemente esordisce in maniera “diversa” dai soliti deficit di memoria (Graff-Radford et al. 2021).

  4. Molte persone giovani sono testimonial della malattia. Ho apprezzato Wendy Mitchel nell’autunno del 2019 ad un convegno… ha affermato, categoricamente: ”Queste dinamiche sono probabilmente dovute al fatto che molti partono dal falso presupposto che le persone con demenza siano tutte uguali… L’approccio stigmatizzante alla demenza sembra inoltre suggerire che siamo tutti uguali nel modo in cui si presenta la malattia a prescindere dall’età in cui riceviamo la diagnosi… Ma soprattutto vorrei precisare che nessuno passa improvvisamente dalla fase della diagnosi alle fasi più avanzate di una demenza, specialmente quando si tratta di una diagnosi effettuata in una fase precoce della malattia”. È fondamentale ascoltare le esperienze e le testimonianze delle persone con demenza, come modo per contrastare gli stereotipi e promuovere una migliore comprensione della malattia.

  5. Il punto 5 è dedicato ai familiari (ma può accadere anche con i professionisti della salute e dell’area sociale) quando in qualche modo contestano e intralciano la diagnosi ritenendo che quella persona stia bene sotto il profilo cognitivo\comportamentale in quanto “ricorda il nome delle mie figlie”; “mi fa ancora bene da mangiare”. Infatti, il coinvolgimento dei familiari può rappresentare un ostacolo quando essi negano o minimizzano i sintomi della demenza, creando difficoltà nel processo di diagnosi e presa in carico.

  6. Infine,il Mini Mental (MMSE) può mentire”. Succede particolarmente quando l’esaminatore non lo esegue correttamente: suggerisce, fa ripetere la prova sbagliata, tiene conto del risultato numerico non badando al fatto che alcuni punti sono “pesanti” e altri no. “Signora, suo marito ha ottenuto 28 su 30, sta bene”! “Ma come? Se a volte non riconosce la nostra casa?”; “Sta bene: il risultato è nel range della normalità”. Insisto da decenni che “c’è punto perso e punto perso”, alcuni item (richiamo delle 3 parole, errori semantici, copia del pentagono, prova di lettura e conseguente capacità di esecuzione, ovvero chiudere “semplicemente” gli occhi, ecc.) hanno una valenza “negativa” notevole. E ancora, eseguendo l’esame cognitivo breve, è necessario tenere nel debito conto le fluttuazioni cognitive e, utile sottolinearlo, il racconto dei familiari.

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