Lo spirito d’iniziativa dell’imprenditore triestino si può notare già agli inizi del ‘900. C’era una certa
creatività a rendere particolari le attività esistenti allora in città.
Quale ispirazione ha portato, ad esempio, a confezionare delle sontuose parrucche, degne delle signore
della buona società e anche delle comparse del Teatro Verdi, con la materia prima sottratta alle fanciulle
della Valle del Vipacco? Eppure le chiome sacrificate, recise con qualche lacrima, avrebbero garantito un
pezzo di dote a queste ragazze, dalle capigliature talmente folte da riuscire a comporre i famosi “cocon de
Chirilon”, dove il nome del parrucchiere in questione diventava addirittura un complimento.
Anche una fabbrica di bottoni di fine ottocento era certamente originale, dato che la madreperla veniva
intagliata da pezzi di conchiglia. Una tecnica imparata a Vienna dal nostro Trevisini: con questi mezzi
semplici, uniti a perizia e fantasia, l’attività venne portata avanti per intere generazioni.
Nota in tutta Italia, invece, la fabbrica di pallini da caccia: ancora oggi in via Marconi svetta la torre alta
45 metri in cui venivano prodotti. La procedura era un po’ primitiva e complessa, ma del tutto
soddisfacente. Dalla sommità della torre veniva fatto cadere del piombo fuso che, attraversando una grata
forata, si divideva in minuscoli pallini che si sarebbero raffreddati durante la caduta; una vasca d’acqua
sottostante ne produceva il consolidamento finale.
Ancora più prestigiosa la fabbrica di campane aperta nel rione di Guardiella a cavallo tra ‘800 e ‘900. Il
Campagna, specializzato nella fusione del bronzo, fece risuonare la voce delle sue creature in tutti gli
angoli d’Europa. Il valente artigiano si abbassava anche a confezionare manufatti più modesti: i suoi
campanelli adornarono molti portoni dei palazzi signorili, che poteva rifornire anche di robuste casseforti
per nascondere i preziosi.
In via Buonarroti esistono ancora gli edifici della fabbrica di cioccolato Lejet, nata per opera di un
emigrato francese, che aveva imparato l’arte dolciaria a Trieste. I primi a sperimentare i suoi prodotti
furono i marinai della Marina Regia, che diedero il via a una diffusione su larga scala. In seguito al
successivo declino la fabbrica fu chiusa negli anni ’50.
La grande Modiano, infine, non ha bisogno di presentazioni: le sue carte da gioco hanno ampiamente
valicato i nostri confini. Vanno ricordati il coraggio e la costanza con cui la fabbrica superò varie
vicissitudini, a causa di vicende politiche, guerre, incendi, bombardamenti, che le permisero di risollevarsi
e di continuare l’attività fino ai giorni nostri.
E finiamo con una canzone triestina che ricorda in chiave ironica le lavoratrici della fabbrica: cita la loro
avvenenza-i bei museti che le ga-, i tanti ma modesti corteggiatori- scartozeti senza un bel-, la lingua
schietta -le distuda più candele del nonzolo-, l’ardore passionale -le se struca col moroso poi le va in
confesion-, e l’igiene un po’ approssimativa- soto i rizi i pedoci ghe fa confusion.
Inventiva d’Imprese – di Milvia Minen
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