Quando siamo più fragili, quando ci colpisce la malattia o entriamo nella vecchiaia, e necessitiamo di cure mediche e di sostegno, abbiamo bisogno che la nostra dignità, che abbiamo tutelato da soli nel corso della nostra vita, sia invece protetta anche con l’aiuto degli altri.
Invece, purtroppo, è proprio nei luoghi di cura che spesso le preoccupazioni di ordine organizzativo hanno la meglio sulla difesa della dignità dei pazienti. Vi racconto solo un breve episodio, che è rimasto scolpito nella mia mente. Qualche mese fa ho dovuto portare mio padre novantacinquenne al Pronto soccorso di un ospedale della mia città, che gode di un’ottima reputazione. Abbiamo atteso diverse ore, e papà era molto stanco, ma presente. Infine, un medico ci ha fatti entrare, ha cominciato a parlare con me ignorando totalmente mio padre, rivolgendosi a lui solo per brevi ordini, dandogli del tu. L’ho rimproverato «perché gli sta dando del tu?», allora si è scusato con freddezza. Poi l’ha fatto sdraiare sulla barella e l’ha spogliato davanti a tutti, senza alcuna privacy. Infine, mi ha cacciata fuori, e quando sono riuscita a rientrare papà aveva il pannolone ed era molto confuso. Ho firmato e l’ho portato via, indignata. Quel giorno, in quel Pronto soccorso, ho visto diversi anziani mortificati nella loro umanità e dignità, tra cui una vecchia suora minuta e spaurita che mi ha fatto molta tenerezza. Uscito da quell’esperienza, mio padre ricordava poco, ma non aveva dimenticato di essere stato “denudato in pubblico”. Analoghe mancanze di rispetto ho visto accadere in alcune RSA che ho visitato. Per questo vi propongo una riflessione.
Come spesso mi è già capitato di scrivere in questo blog, la percezione della propria dignità dipende anche dallo sguardo con cui gli altri ci osservano. Se quando siamo particolarmente vulnerabili diventiamo numeri, o organi malati, o molecole, è ovvio che andiamo incontro alla mortificazione della nostra persona. Se siamo poi considerati semplici ingranaggi di un sistema che privilegia il funzionamento della macchina ospedaliera, con criteri aziendalistici, è naturale che ci sentiremo umiliati nella nostra umanità, sviliti e semplificati, in una parola non rispettati.
Siccome però, nonostante le buone leggi che abbiamo, le cose non cambiano dall’alto (l’organizzazione della sanità continua a sottovalutare per lo più la legge 219 del 2017, e i suoi preziosi articoli sul consenso informato), occorre quindi la crescita di una consapevolezza dal basso, di un’educazione alla salute dei cittadini, che provochi un cambiamento di mentalità anche in chi cura.
A prima vista sembra un controsenso, ma la prima cosa da fare è abbandonare l’illusione che la medicina sia onnipotente. Se l’aspettativa è che io (o il mio familiare) siamo sempre salvati, i curanti si sentiranno esposti al rischio di una denuncia (il numero di denunce che ricevono è molto più alto degli episodi documentabili di malasanità), e lavoreranno sulla difensiva, irritabili e certo non attenti allo sviluppo di un atteggiamento di autentica compassione (in senso etimologico) ed empatia. La nostra pretesa infantile di respingere sempre la morte opera contro di noi.
Quando il nostro atteggiamento non è aggressivo e comprendiamo i limiti e gli sforzi di chi ci sta di fronte, dobbiamo però esigere il rispetto. Occorre notare i dettagli: dare del tu, parlare ad alta voce agli anziani anche quando ci sentono benissimo, portare farmaci senza spiegare di cosa si tratta e perché se ne propone l’assunzione, svegliare i malati per futili motivi, ignorare il dolore delle persone con demenza, usare in modo errato strumenti di contenzione, solo per alleggerire il lavoro degli operatori, usare indiscriminatamente il pannolone per non dover accompagnare i pazienti in bagno, e la lista potrebbe allungarsi indefinitamente, con tutti gli atteggiamenti paternalistici e irrispettosi con cui certamente anche voi vi siete scontrati in qualche luogo di cura.
Su questo fronte, le cure palliative hanno molto da insegnare, perché considerano fondamentale la tutela della dignità del malato, che viene messo al centro dell’attenzione e pensato come persona complessa di cui prendersi cura.
La parola “cura” è la chiave di volta di questa nostra riflessione. Occorre chiedere di essere “guariti” solo quando è possibile, ma pretendere sempre di essere “curati”. Curare anche quando non si può guarire è uno slogan per le cure palliative. Ma la cura (il prendersi cura della persona, e della sua qualità di vita) non va riservata solo alle persone alla fine della loro esistenza, a domicilio o in hospice, ma va estesa progressivamente alla dimensione sanitaria tout court. E’ la grande sfida che le cure palliative stanno intraprendendo dal punto di vista culturale. In primo luogo, portare le cure palliative in tutti i luoghi di cura, quindi contagiare con la propria cultura della cura rispettosa tutto il mondo sanitario. La pandemia ci ha dato un esempio della potenza trainante delle cure palliative: nei pochi centri in cui erano presenti dei medici palliativisti, le cose sono andate in modo meno drammatico.
Harvey Max Chochinov scrive, nel bellissimo Terapia della dignità: «Se la vita è una specie di camminata sul filo, la probabilità di cadere aumenta a mano a mano che ci si avvicina alla fine. Pensiamo, allora, alle cure palliative come a una rete di protezione. Nessuno può evitare la caduta, ma le cure palliative possono dare un atterraggio più morbido». Io aggiungerei che questa rete potrebbe essere stesa con il dovuto anticipo, per garantire un po’ di morbidezza anche a coloro che magari guariranno, ma che stanno attraversando un’esperienza difficile.
Sarà un percorso lungo, perché richiede un cambiamento di mentalità, ma ciascuno di noi potrebbe abbreviarlo per sé e per i propri cari, informandosi sui propri diritti e sulle cure palliative, e chiedendo una cura rispettosa, trasmettendo anche ai curanti l’esigenza di salvaguardare la percezione dei malati di essere portatori di dignità. Parliamone, raccontiamo, contribuiamo a modificare la medicalizzazione priva di umanità.