L’insegnamento morale di Kant – di Carlo della Bella

Immanuel Kant nacque (1724) e morì (1804) a Königsberg, allora capitale della Prussia Orientale, oggi Kaliningrad, capoluogo dell’ex-clave russa tra Polonia e Lituania.

Kant è uno dei pochi filosofi che hanno fatto epoca, rappresenta una figura “discriminante”: con lui la filosofia si divide in “prima di Kant” e “dopo Kant”, passa dal moderno al contemporaneo. Della sua vita sappiamo tutto, o quasi. Anche se non c’è poi molto da sapere: è stato scritto che Kant non ha altra biografia che la storia del suo filosofare. Ciò che colpisce è il contrasto tra la sua vita tranquilla, che ebbe un decorso monotono, un po’ grigio, e la profondità della sua originalissima filosofia.

Nella seconda metà del Settecento è diffusa in Europa la cultura dell’Illuminismo, che arriva anche in Germania dove prende il nome di Aufklärung: Kant ne è affascinato e contagiato. Tanto da cimentarsi in un breve scritto dal titolo significativo: “Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?”. Risposta che si compendia nel motto: Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della sua intelligenza! Da qui il suo progetto filosofico: sottoporre al vaglio della ragione, cioè ad indagine critica, tutte le nostre conoscenze. Ecco l’origine delle tre famose Critiche kantiane.

La prima, la“Critica della ragion pura”, opera difficile e complessa, si compendia in fondo nel tentativo di rispondere alla domanda: che cosa e come posso conoscere? Con un interrogativo correlato: è possibile una filosofia come scienza? In sintesi, la conclusione è questa: della realtà noi possiamo conoscere in modo rigoroso solo l’aspetto fenomenico, una volta ordinato secondo categorie che ci fornisce la ragione. Kant nega ogni possibilità di una conoscenza ultrasensibile e quindi della metafisica come scienza. Da ciò anche l’impossibilità di dimostrare l’esistenza dell’anima e di Dio.

La terza,“La critica del giudizio”, riguarda il problema estetico, cioè il bello nella natura e nell’arte. Qui la tesi sostenuta da Kant è che la bellezza non è una proprietà delle cose, bensì il frutto di un rapporto armonico del nostro spirito con esse.

Nella seconda Critica, “La critica della ragion pratica”, Kant affronta la questione morale. Egli rivendica subito l’assoluta necessità di una morale “autonoma”, cioè che scaturisca in piena autonomia dalla coscienza di ogni uomo come legge che non ammette deroghe, senz’altro fine che quello di aver agito bene. Morale alta e difficile da accettare, che non offre ricompense, lontana dalle morali religiose dove alla fine per il buono c’è un premio, il paradiso o simili: la virtù basta a se stessa, ci dice Kant, il dovere per il dovere.

Fatta questa premessa, Kant è consapevole del problema di fondo di ogni morale: quello della libertà dell’uomo, del libero arbitrio. Dopo le conclusioni a cui era giunto nella prima Critica, egli si trova davanti a questa contraddizione: le ferree leggi del mondo fisico – di cui l’uomo è parte – non sembrano lasciare spazio per un agire libero e autonomo; d’altra parte la legge morale implica necessariamente la libertà, senza la quale non c’è merito e non c’è colpa. É questa la spinosa questione che percorre l’intera seconda Critica. Ritorna l’antico problema che aveva tormentato Agostino, aveva contrapposto Erasmo e Lutero, aveva ispirato a Spinoza pagine di alta meditazione: siamo liberi, oppure ci illudiamo solo di esserlo,e non facciamo sempre nient’altro che ciò che dobbiamo fare, spinti, forzati, condizionati dalle infinite cause e moventi e impulsi – genetici, fisiologici, chimici, ambientali, educativi – magari ignoti, ai quali non sappiamo e di fatto non possiamo sottrarci? Questione mai risolta e sempre attuale, credo, per la quale non valgono ragionamenti o dimostrazioni. Kant prende risolutamente posizione, con la famosa affermazione: Di due cose soltanto sono certo, dell’esistenza del cielo stellato sopra di me e della legge morale dentro di me. La legge morale esiste nella mia coscienza: di ciò non posso assolutamente dubitare; dunque neanche della mia libertà posso dubitare, perchè senza la libertà la legge morale non potrebbe esistere, sarebbe vanificata. Non importa che la scienza metta in dubbio la nostra libertà: la scienza riguarda la conoscenza del mondo, non le nostre scelte di vita. Kant rivendica così quello che chiama “il primato della ragion pratica” (dove l’aggettivo pratica è sinonimo di etica, morale). Cioè tra i due poli – per così dire – di cui si compone la ragione, quello conoscitivo e quello etico, prevale, ha il primato, il secondo. Kant definisce la libertà il primo postulato della ragion pratica: ciò rende l’uomo pienamente responsabile delle proprie azioni e scelte. In tale prospettiva, Kant si convincerà che la legge morale implica altri due postulati: l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio, che a livello scientifico, nella prima Critica, non era stato possibile dimostrare. Egli parte dalla convinzione che troppo spesso virtù e felicità non sono congiunte, chi è buono non è felice. Occorre allora postulare, per non vanificare la legge morale, che ogni uomo possa continuare ad esistere, come soggetto morale, anche oltre la morte. Così come sorge l’esigenza, secondo Kant, di postulare l’esistenza di una realtà superiore, un “sommo bene” in cui santità e felicità si trovino unite. Proprio sulla base della II Critica Kant potrà ribadire nel saggio“La religione entro i limiti della semplice ragione” che non sono le verità religiose a fondare la morale, bensì è la morale, sia pure sotto forma di postulati, a fondare le verità religiose. Per cui tutte le dispute della teologia non hanno alcun senso.

Ma che cosa prescrive la legge morale, che secondo Kant scaturisce autonomamente dalla coscienza di ogni uomo? Kant lo chiama imperativo categorico: è la voce della coscienza che dice “tu devi!” e, secondo una libera scelta, presenta un’azione come necessaria per se stessa, senza altro fine. Essa esige che l’azione buona sia compiuta unicamente per stessa: una scelta morale o assume questa forma o cessa di essere tale. Senonché l’imperativo categorico è formale, cioè privo di contenuto: non mi dice “che cosa” devo fare, bensì solo la forma che deve assumere ogni azione etica. Non è un catechismo, un prontuario delle cose da fare e da seguire per andare in paradiso. Ciascuno trovi dentro di sé “la via”, sapendo che la morale non ammette secondi fini o compromessi. Morale profonda, ma ardua, quella kantiana. Kant stesso ne era consapevole, per cui ha indicato alcune massime, che contribuiscono a chiarire il senso del “tu devi”. Per esempio. Agisci in modo che la massima della tua azione possa valere come principio di una legislazione universale – (Come il pietista Kant sapeva bene, tale monito-invito era suonato alto nelle parole del Cristo: Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te.) – Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro uomo, sempre come fine e mai come mezzo. Basterebbe questo, credo, a rendere migliore ogni uomo e tutta la società. Forse allora, dopo due secoli, la seconda Critica kantiana ha ancora qualcosa da dire e da insegnare a noi, uomini e donne del secondo millennio.

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