La vecchiaia è un destino comune. Immaginando di condurre una vita non interrotta prematuramente da cause di forza maggiore, tutti un giorno diventeremo anziani e sperimenteremo, in misura maggiore o minore a seconda dei casi, le fragilità, le difficoltà e le perdite naturalmente connesse al processo di invecchiamento. Non fa piacere parlarne, ma senza dubbio ciascuno di noi nella sua mente si augura una vecchiaia ideale, caratterizzata da buona salute e soprattutto da una buona assistenza per far fronte alle problematiche che inevitabilmente il trascorrere del tempo comporta. Eppure, nonostante sia desiderio di tutti vivere l’età anziana circondati da persone affettuose, attente, competenti, gentili, prudenti, rispettose delle esigenze e della dignità che spetta ad ogni essere umano, la cronaca ci racconta in continuazione una realtà diversa, in cui gli anziani di oggi subiscono maltrattamenti e molteplici forme di abuso da coloro che saranno gli anziani di domani, e dunque potenzialmente esposti agli stessi ingiusti trattamenti.
Ma perché questo accade? E come possiamo intervenire per rendere il sistema dell’assistenza agli anziani più virtuoso e attento al loro, e al nostro futuro, benessere?
I dati parlano chiaro: il fenomeno della violenza sugli anziani è vergognosamente diffuso. In tutto il mondo, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), fra gli over 60 una persona su sei è vittima di abusi. Numeri apparentemente già alti, ma che come sottolinea l’OMS rappresentano soltanto delle proiezioni parziali e sicuramente al ribasso. A prova di ciò, il quadro nazionale tracciato dalla SIGG (Società Italiana di Geriatria e Gerontologia) in occasione della giornata mondiale di sensibilizzazione contro gli abusi sugli anziani tenutasi il 15 giugno scorso, mostra come in Italia la percentuale di coloro che subiscono angherie e maltrattamenti in terza età arrivi a toccare cifre più alte.
Percentuali che partono dal 10% della popolazione anziana, quando ci si basa esclusivamente sugli abusi denunciati dalle stesse vittime, e che arrivano al 34% quando gli episodi vengono riferiti dai familiari, o da chi li assiste. Una stima che diviene allarmante nel mondo delle Rsa e case di riposo, dove gli episodi di violenza ai danni dei residenti riguardano circa i due terzi di essi. Ma cosa si intende per maltrattamento in questo specifico frangente?
L’OMS lo definisce come “un’azione singola o ripetuta, oppure l’assenza di un’azione adeguata, che causa danni o sofferenza a una persona anziana, nell’ambito di una relazione in cui c’è un’aspettativa di fiducia nei confronti del caregiver”. Non è dunque l’intenzionalità a contraddistinguere il maltrattamento, ma il danno procurato, indipendentemente che si tratti del risultato di un comportamento volutamente violento o di un’azione involontariamente deleteria per il benessere psicofisico dell’assistito.
Ciò fa sì che nella definizione siano inclusi gli abusi fisici, sessuali, economici, ma anche quelli emotivi, oltre l’incuria e l’abbandono della persona fragile. Si tratta dunque di una molteplicità di forme di violenza non tutte però parimenti evidenti.
Se i maltrattamenti fisici, come strattonamenti, schiaffi, spinte e contenimenti non giustificati, lasciano segni tali per cui è più probabile la denuncia, esistono abusi psicologici insiti nella pratica quotidiana del lavoro di cura che non sempre vengono riconosciuti, né di conseguenza adeguatamente segnalati dalle stesse vittime.
Il maltrattamento psicologico ed emotivo si manifesta attraverso atteggiamenti svalutanti, mancato rispetto delle persone, infantilizzazione e ogni altra forma di comportamento che causa, in coloro che lo subiscono, disistima, frustrazione e umiliazione.
Una forma di violenza sottile, subdola, che si nasconde, talvolta, dietro la convinzione di mettere in atto determinati comportamenti o atteggiamenti per il bene dell’assistito, e che forse proprio per questo risulta essere quella più diffusa nelle strutture residenziali, colpendo circa un anziano su tre (Yon e colleghi, 2019). In percentuale seguono la violenza fisica, che interesserebbe il 14,1% degli anziani istituzionalizzati, il maltrattamento economico con il 13,8%, e l’incuria con l’11,6%, da considerarsi come l’insieme dei comportamenti riferibili a mancata stimolazione fisica e sociale degli anziani, mancanza o carenza di nutrizione, pulizia e cure, assenza di precauzioni per la sicurezza e trattamento medico e sanitario inappropriato. All’ultimo posto le violenze a carattere sessuale, sia fisiche che verbali, che con l’1,9% dei casi chiudono una graduatoria che non può lasciarci indifferenti.
La domanda quindi sorge spontanea: come si spiegano questi agiti nei confronti di quella che è la generazione dei nostri genitori, o dei nostri nonni, nella maggior parte dei casi proprio da parte di coloro che sono preposti alla loro cura e tutela? Molteplici sono innanzitutto i fattori di rischio che espongono i soggetti coinvolti nella relazione a comportamenti che sfociano poi nelle forme di violenza sopraelencate (Alraddadi, 2022). Quelli riconducibili alle potenziali vittime sono l’età avanzata, le condizioni di disabilità fisica o cognitiva, la difficoltà o impossibilità di comunicare l’abuso subito, la paura di denunciare e la tendenza a proteggere o giustificare chi compie un comportamento d’abuso. Quelli invece legati ai caregivers, quando gli agiti sono privi della volontarietà di danneggiare l’assistito, possono essere la scarsa o assente formazione sul tema, la mancanza di consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni, una maggiore attenzione alle proprie esigenze o a quelle dell’organizzazione rispetto a quelle della persona da assistere, la fragilità dell’equipe, lo stress e le condizioni di lavoro eccessivamente gravose.
Come sottolinea ancora una volta la SIGG, “l’assistenza di un anziano, specie con deterioramento cognitivo, impegna il famigliare o l’operatore sanitario sia sul piano pratico ed organizzativo che su quello emotivo, portando spesso a un ‘cortocircuito’ relazionale che si ripercuote sulla vita dell’assistito con comportamenti abusivi del caregiver, che percepisce l’onere assistenziale come un impegno schiacciante e complesso…Ed è proprio lo stress derivante dal carico assistenziale a causare una riduzione della qualità delle cure e, nel peggiore dei casi, situazioni di abuso che esplodono soprattutto nel difficile periodo estivo”.
Altre caratteristiche degli operatori associate a un maggiore rischio di abusi sono i problemi psichiatrici, l’uso di droghe e alcool così come i tratti di personalità disturbati.
Si aggiungono inoltre stati di frustrazione, rabbia e disagio sociale, oltre che componenti culturali e linguistiche che incidono negativamente sulla capacità di affrontare in modo adeguato i problemi di assistenza, aumentando invece il rischio di incomprensioni e conflitti. Vanno poi considerati anche i fattori organizzativi e le politiche aziendali che incidono direttamente sul rischio del maltrattamento, fra cui la selezione, formazione e supervisione del personale; gli organici, i carichi di lavoro e i salari; i modelli di organizzazione del lavoro; il clima organizzativo; il livello di comunicazione esistente in struttura; le interazioni con i famigliari e la comunità. È chiaro che la complessità e l’intersezione dei fattori che concorrono ad aumentare il rischio di maltrattamento rende impossibile imputare tale fenomeno solo a problemi di interazione tra operatori e anziani.
Il livello della relazione interpersonale è quello in cui esplodono con più frequenza le tensioni, ma è anche lo spazio in cui si accumulano contraddizioni e decisioni organizzative in cui i singoli operatori rischiano di essere a loro volta più vittime che carnefici.
Cosa fare dunque? Innanzitutto acquisire maggior consapevolezza di questo fenomeno, riconoscendo che esso esiste ed è presente nelle famiglie così come nelle strutture per anziani in forme plurali e silenziose.
La conoscenza del fenomeno e dei suoi fattori di rischio è un passo importante che riguarda più ambiti e livelli di responsabilità e rappresenta la premessa ineludibile per iniziare a pensare a serie strategie di prevenzione. Concretamente parlando possono essere particolarmente utili iniziative rivolte ai caregiver, come l’ispezione e il monitoraggio dei servizi assistenza, investimenti nella formazione specifica della propria equipe sul tema, l’attribuzione di responsabilità al fine di coinvolgere maggiormente i singoli operatori nell’organizzazione e nel successo dell’attività assistenziale.
Ma anche una maggiore attenzione al benessere psicofisico degli assistiti attraverso la costruzione di procedure e strumenti dedicati alla prevenzione e rilevazione di maltrattamenti e abusi, ed infine la corretta informazione agli anziani e alle famiglie in merito a quelli che sono i loro diritti e a come segnalare eventuali casi di maltrattamento.
Perché se è vero che un cambiamento di sistema è necessario, è altrettanto vero che potremo ottenerlo solo con l’apporto e la collaborazione di tutte le sue parti.