Perché parlare in dialetto può essere utile per contrastare il deterioramento cognitivo – del dott. Mauro Cauzer, psicoterapeuta

L’articolo della dott. Annapaola Prestia su “ L’utilizzo del dialetto come stimolo cognitivo e strumento di benessere per l’anziano “ suggerisce come il dialetto possa essere una componente delle varie strategie di intervento per rallentare il declino cognitivo, riportando studi pubblicati su importanti riviste scientifiche come il “ Journal of Aging Studies “ e su “ Dementia and Geriatric Cognitive Disorders “ che affermano che un’attività di reminiscenza con il racconto di storie e l’uso del dialetto porta dei risultati positivi.

Stimolati da questa prospettiva abbiamo fatto ricorso alla letteratura psicoanalitica per esaminare le trasformazioni psicologiche che il passaggio dalla lingua madre alla lingua ufficiale comporta e, facendo un cammino a ritroso sui primissimi stadi del nostro sviluppo mentale, una specie di decostruzione dell’apprendimento della capacità di parlare e di simbolizzare, per capire meglio il progressivo sfaldarsi delle specifiche funzioni cognitive.

Già nel 1939 lo psicoanalista Erwin Stengel suggeriva come il linguaggio fosse una realizzazione dell’Io dell’individuo, per cui investigare sulle difficoltà del linguaggio significava investigare le differenti influenze emozionali a cui l’Io è soggetto anche se queste influenze variano da persona a persona. C’era dunque la consapevolezza della stretta connessione che si crea tra apprendimento del linguaggio e sviluppo psicoaffettivo e qual’è la radice dei processi di pensiero. Madrelingua, mother tongue, alma mater, langue maternelle sono le definizioni che universalmente vengono date alla prima lingua che gli individui cominciano a parlare tanto che molti anni più tardi nel 1990 Amati Mehler affermava che le immagini verbali esprimono in modo suggestivo l’idea che la funzione del linguaggio venga appresa quando siamo attaccati al seno materno insieme al latte. Il passaggio dalla lingua materna, il dialetto, che rappresenta la relazione originaria tra il bambino e il seno materno, alla lingua ufficiale presenta quindi delle notevoli difficoltà perché segna l’abbandono di un mondo affettivo con un senso di non appartenenza a nessun luogo, a nessun tempo, a nessun amore, un mondo in cui si sono perse le coordinate della propria identità.

Molti altri autori ritengono che la lingua madre sia indispensabile allo sviluppo del pensiero e allo sviluppo affettivo, che sia parte integrante dell’identità di una persona e che costituisca il fulcro della sua identità culturale che poggia su tradizioni, modi di pensare, storia, famiglia, ricordi,paese, norme e valori.

Tutto ciò appartiene alle prime fasi dello sviluppo, ai processi più arcaici e primitivi della mente, molto vicini al funzionamento corporeo. Sarà compito della madre, il primo oggetto e primo caregiver, attraverso l’abituale corrispondere ai bisogni del bambino, tenere insieme i frammenti delle sensazioni che producono la memoria mentale nel periodo in cui il bambino non ha ancora la capacità mentale di tenere insieme sé stesso ed è ancora molto lontano da una prima immagine mentale di sé, cioè di uno spazio racchiuso da un confine corporeo separato dallo spazio esterno. Il piccolo vive semplicemente delle sensazioni che soddisfano delle tensioni, il corpo è la sola via di espressione perché la mente non né ancora pronta a rappresentarle.La memoria mentale, sulla quale si va formando il senso di sé nei primi mesi di vita, è pertanto necessariamente frammentaria e non può dar luogo che a un senso di sé frammentario.

Dopo cinque-sei mesi dalla nascita biologica, il bambino si accorge della sua separazione dalla madre, comincia a “percepire” qualcosa e non soltanto a “sentire” qualcosa, passa dalla sensazione, che rende tutto uguale a sé, alla percezione che riguarda invece qualcosa al di là di sé, che non fa parte di sé. Nel distacco emerge la paura del vuoto intorno e di disperdersi in quel vuoto, ma sarà già possibile percepire l’esterno mentalmente.

Crediamo che questa sia la forma di angoscia che prova una persona fortemente deteriorata quando la carenza di memoria sta dissolvendo la propria storia individuale minando un elemento portante della propria identità che, frammentandosi, perde la sua coesione: l’angoscia di andare in pezzi, di disperdersi nello spazio oppure di scomparire, di annientarsi.

Il pensiero quindi affonda le sue radici negli affetti che gli stimoli sensoriali non immediatamente soddisfatti suscitano, collega tra loro le percezioni sensoriali per mezzo di legami emotivi e ha la funzione di permetterci di tollerare e di conoscere la realtà. La formazione dei primi simboli segna uno spostamento di interesse dal corpo agli altri oggetti e sta alla base del progressivo aumento di significati dati al mondo esterno e la propria realtà psichica può essere sperimentata come diversa dalla realtà esterna che viene riconosciuta e investita di affetti e fantasie. Avviene la nascita del pensiero.

Il simbolo è sentito come un rappresentante dell’oggetto e le sue caratteristiche sono riconosciute, rispettate e usate, mentre nella patologia del deterioramento cognitivo c’è l’incapacità di vedere in un oggetto altri significati oltre a quello obiettivo perché nella mente della persona deteriorata non c’è spazio per la contemporaneità dei significati.

Le funzioni cognitive sono quelle capacità che ci permettono una corretta interpretazione e gestione delle informazioni, vale a dire la memoria, l’attenzione, la percezione, il riconoscimento e la comprensione delle informazioni del mondo esterno, la capacità di dare risposte adeguate e di farsi capire con le parole e le azioni, l’orientamento nello spazio e nel tempo. La capacità di simbolizzazione implica l’utilizzo di varie funzioni cognitive, come pure la capacità di astrazione, le abilità logiche, la capacità di apprendimento, di attenzione, di memoria e di ragionamento. Va dunque precisato che la capacità di simbolizzazione non è legata a una singola struttura in una specifica area cerebrale, ma si basa sull’integrità di una complessa rete nervosa con importanti nodi cortico-sottocorticali.

La funzione del linguaggio, dunque, appartiene all”ambito delle funzioni psicopercettive e psicomotorie superiori, cioè alle funzioni prattognostiche, delle quali può essere considerata quella più differenziata e complessa. Si deve in questo ambito intendere per “linguaggio” la funzione globale: non soltanto uditiva e fonetica, ma anche visuo-percettiva e visuomotoria. La strutturazione della funzione verbale non può così prescindere da una stretta correlazione con le altre funzioni psico#percettive, psico-motorie e simboliche, alle quali è strettamente correlata.

De Nigri (1999) inoltre riporta come, per quanto riguarda gli aspetti neuro-fisiologici del linguaggio, siano note le dottrine sulle localizzazioni cerebrali (i classici centri verbomotore di Broca e verboacustico di Werniche, rispettivamente localizzati nella III circonvoluzione frontale ascendente e nella I e II circonvoluzione temporale dell”emisfero dominante). Tali dottrine oggi vengono considerate in una più ampia prospettiva psico-biologica: la funzione fonatoria non è da concepirsi come pertinente ad un solo emisfero, anche se uno solo (quello dominante) ne sviluppa gli aspetti più differenziati (simbolici e linguistici). Ciò trova una base anche nei dati anatomofisiologici, secondo i quali le aree di “proiezione primaria” delle regioni acustiche corticali (circonvoluzione di Heschl dei lobi temporali) inviano rispettivamente proiezioni alle regioni omologhe di entrambi gli emisferi. È comunque da tempo ammesso che il vecchio concetto statico di “centro anatomico” non è più valido: esso è sostituito da un concetto più dinamico e plastico, che vede nella funzione del linguaggio, piuttosto che l”attività di centri univoci e circoscritti, quella della corteccia cerebrale intesa come un tutto, in cui si attuano prevalenze distrettuali più “specializzate” (Goldstein, 1948). Gli studi di tomografia cerebrale più recenti, inoltre, hanno messo in evidenza che diverse parti della corteccia frontale sinistra sono coinvolte nell”elaborazione della struttura (sintassi) e nel significato (semantica) di una frase: tali studi, quindi, hanno suggerito che la distinzione psicologica tra questi due aspetti del linguaggio abbia una correlazione neuroanatomica (Vigliocco, 2000). Nelle demenze la capacità di simbolizzazione viene compromessa a diversi livelli e questo deficit può essere ricondotto al malfunzionamento di varie zone cerebrali. Govoni e Racchi (2000) riportano come la demenza fronto-temporale presenti come tratto distintivo l”atrofia fronto-temporale con perdita neuronale, vacuolizzazione e gliosi che colpiscono sia la sostanza grigia che la bianca. La perdita neuronale comprende la corteccia frontale, temporale anteriore, cingolata anteriore e insulare anteriore. All”interno del lobo frontale vanno distinte le porzioni della corteccia prefrontale ventromediale e orbitofrontale, la cui lesione comporterebbe la compromissione della capacità di giudizio, e la porzione dorsolaterale mesiale, la cui lesione comprometterebbe la memoria di lavoro. Nella malattia dementigena tutte le alterazioni descritte in caso di lesioni focali possono essere presenti secondo un pattern temporale progressivo col procedere del processo neurodegenerativo e interdigitarsi in quanto l”area di lesione è meno definita. Capurso e colleghi (2000) riportano come nei pazienti affetti da demenza fronto-temporale il comportamento possa diventare rigido, inflessibile e perseverativo. La presenza di oggetti nelle immediate vicinanze può stimolare azioni collegate all”oggetto stesso che non hanno però nessuna rilevanza nel contesto ambientale in cui si svolgono. In questi pazienti deficit di astrazione, pianificazione e autoregolazione si associano portando a perseverazione e rigidità mentale, con difficoltà di organizzazione e sequenziazione del pensiero logico. Le manifestazioni cliniche sono caratteristiche della disfunzione dei lobi frontali. Spesso accade che l”anziano non riesca più a maturare un pensiero autonomamente quando si affronta un qualsiasi argomento di discussione e come risposta ripeta sempre la stessa cosa. Difficilmente sarà in grado di formulare un ragionamento e di esprimere un”opinione personale. Con la perdita della memoria viene meno anche la capacità di rievocare e collegare le cose. Accade così che l”anziano non sia nemmeno in grado di dare un significato stabile ad un oggetto percepito per un deficit della capacità di astrazione. L”anziano non può riconoscere o collocare un oggetto nello spazio-tempo dal momento che, nella sua mente, il ricordo di quell”oggetto è svanito. Non è in grado di ricordare una cosa che per lui, in quel momento, non è mai esistita.

Un tipo di demenza fronto-temporale è la demenza semantica. Questa è caratterizzata dalla perdita del significato delle parole e dal deterioramento nel riconoscimento di volti e oggetti, è una delle manifestazioni cliniche della degenerazione del lobo frontotemporale ed è associata ad atrofia del giro temporale inferiore e medio. I pazienti possono presentare problemi nella denominazione e nella comprensione di parole, o nel riconoscimento di volti e oggetti, la predominanza del verbale o non verbale riflette l”accentuazione dell”atrofia sul lobo temporale destro o sinistro. La perdita della conoscenza semantica in questi pazienti può includere la perdita della capacità di comprendere il senso delle parole e il significato di oggetti come anche il fallimento nel riconoscere odori, sapori, stimoli tattili e suoni non verbali (come lo squillo di un telefono o di un campanello). Tuttavia le abilità 11 sensoriali primarie sono ben conservate, così i pazienti non hanno difficoltà nel notare la presenza di stimoli visivi, uditivi, tattili od olfattori e nel distinguere dove due stimoli sono uguali o differenti. La difficoltà si trova a livello semantico, nell”assegnare un”identità a stimoli che sono normalmente percepiti. La perdita concettuale tuttavia è spesso parziale (Snowden et al., 1989; Hodges et al., 1992; Snowden et al., 1996). La presenza di malattie neurodegenerative, come il morbo di Alzheimer, porta alla comparsa di deficit di memoria episodica dichiarativa (quella che permette la rievocazione consapevole di fatti personali, eventi datati nel passato e le loro relazioni), alla compromissione delle funzioni esecutive con un notevole impatto sullo svolgimento delle attività quotidiane, causando problemi familiari, e in aggiunta a deficit linguistici, con difficoltà di comprensione e di interpretazione (Tabosa Ferreira et al., 2009). In uno studio condotto da Smith e colleghi (2001) sono state indagate le relazioni semantiche sovraordinate ed il ruolo delle risorse cognitive nel ragionamento induttivo in pazienti con probabile morbo di Alzheimer. I risultati ottenuti dagli Autori mostrano come la conoscenza semantica sia sufficientemente conservata nei pazienti affetti da tale demenza a sostegno della capacità di ragionamento, ma le limitate risorse cognitive possono interferire con la loro abilità nel considerare l”intero spettro di informazioni disponibili durante un compito semantico.

Accorrà e colleghi (2004) riportano come contemporaneamente al deficit di comprensione ed al deficit di attenzione nel morbo di Alzheimer si associ una difficoltà di ragionamento astratto, in parte attribuibile alla comprensione lesa, in parte alla difficoltà di esecuzione mentale di procedimenti logico-astratti. Da un punto di vista anatomico le due funzioni interessano aree cerebrali in parte diverse. Da un lato, il rallentamento dell”ideazione, con conservazione dei contenuti, può essere l”espressione di un interessamento del sistema sottocorticale, d”altra parte la limitazione della logica astratta può essere l”espressione di un processo patologico ad interessamento primariamente corticale: l”atrofia corticale non sempre esclude quella sottocorticale, dimostrando corretto, in questi casi, parlare di un coinvolgimento del sistema cortico-sottocorticale. Le moderne indagini delle neuroscienze sul funzionamento delle aree cerebrali attraverso le tecniche attuali come la FMRI ( Functional Magnetic Resonance Imaging ) e la PET ( Positron Emission Tomography ) hanno dimostrato che la lingua madre, il dialetto, o la lingua appresa successivamente fanno capo ad aree cerebrali differenti. Uno studio recente ha dimostrato che nelle persone che usavano il dialetto come lingua madre l’attivazione cerebrale nelle aree deputate al linguaggio era relativamente bassa come se il cervello potesse procedere in riserva perché già abituato ed esperto.

Abbiamo compreso allora che imparare una nuova lingua, quella ufficiale, è “ un processo che implica una risignificazione dell’intero sistema linguistico e dei legami affettivi che tengono insieme i significati e ciò comporta un distanziamento emozionale dalle parole del dialetto materno difficilmente tollerabile perchè provoca un estraniamento dalla propria identità vissuto come una perdita.”

Spesso pazienti affetti da disturbi della memoria o della concentrazione non dimostrano alcun disagio quando non riescono a trovare la parola giusta nella lingua ufficiale e continuano a ripetere la parola in dialetto anzi si irritano per una eventuale correzione anche perché per loro quella è la relazione esatta con ciò che vogliono dire. In questa situazione c’è una specifica incapacità nella mente dell’anziano, cioè non c’è spazio per una contemporaneità di significati. “ Usare una parola/simbolo significa che un oggetto può rappresentare un altro senza per questo perdere la propria identità. Dunque la capacità di formare simboli non è un qualcosa di acquisito comune a tutti gli esseri umani, ma piuttosto una potenzialità che, una volta acquisita, può essere nuovamente perduta in situazioni sfavorevoli. “

Inoltre in persone che hanno grosse difficoltà nel linguaggio di fronte a parole dette da altri nel loro dialetto mostrano sintomi di ecolalia cioè la ripetizione automatica delle parole che si ascoltano regredendo a primitivi meccanismi di identificazione che caratterizzano le prime fasi dello sviluppo del proprio idioma. La carica affettiva restituisce in modo deformato la traccia mnestica prima inaccessibile ma evidenzia una deviazione dell’attività di simbolizzazione in cui manca alla coscienza la compresenza del simbolo e di ciò che viene simbolizzato. Ma in questa situazione così pregnante di emotività, nell’anziano deteriorato che cerca di dare ordine e coerenza al mondo che lo circonda, possono emergere desideri e voglia di fare qualcosa e un modesto ritorno al processo del pensare.

Conclusioni

Oggi è ormai ampiamente dimostrato che esiste una certa plasticità del cervello non solamente nelle prime fasi di vita come si credeva in passato, ma anche negli adulti (Cappa, 2006). L”organizzazione del sistema nervoso quindi non è “fissata” alla nascita, ma passibile di modificazioni che sono responsabili della ripresa funzionale spontanea e non. Tale plasticità strutturale sembra essere condizione necessaria alla riorganizzazione delle aree corticali ancora indenni attraverso meccanismi compensatori e con una conseguente riorganizzazione del sistema nervoso centrale attraverso strategie alternative (Cabib e Pizzamiglio, 2007).Dunque è possibile rallentare la lenta ma progressiva neurodegenerazione corticale. Affinché i processi di riorganizzazione corticale abbiano luogo, l’ambiente deve fornire una specifica stimolazione volta a compensare i deficit. Oggetto della riabilitazione neuropsicologica è creare questa stimolazione ambientale con un approccio olistico ed individualizzato, che risponda ai bisogni cognitivi, emotivi e motivazionali della persona. Lo scopo della riabilitazione neuropsicologica è di migliorare l’adattamento funzionale del paziente nonostante il danno cerebrale subito (Mazzucchi, 2006).

Convinti che gli aspetti emotivi siano il mezzo migliore per riallacciare i fili simbolici che legano insieme le tracce mnestiche sedimentate e diano loro un senso compiuto crediamo che un compito fondamentale del caregiver sia quello di appianare il più possibile le difficoltà di comprensione con il suo assistito diminuendo la distanza affettiva essendo consapevole che le parole affondano le loro radici nell’esperienza emotiva di esprimersi in dialetto in quanto lingua madre e che la perdita di quest’ultima porta a confusione e angoscia.

Dunque l’uso del dialetto può essere utile per rallentare il declino cognitivo nei suoi primi stadi, successivamente per rinforzare le basi identitarie e infine per contrastare la perdita di identità.

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